Con questo articolo proseguiamo il dibattito - aperto il 18 giugno dall’intervento su Cattolici e politica del professor Agostino Giovagnoli - a cento anni dall’appello di don Luigi Sturzo “agli uomini liberi e forti”. Un manifesto che, anche un secolo dopo, non ha perso smalto e freschezza. 

di Enzo Balboni *

«I programmi si vivono, prima ancora di dichiararli». È una delle massime famose di don Luigi Sturzo, il fondatore del Partito popolare nel 1919. In effetti quello che i suoi avversari liberali e socialisti chiamavano con malcelato disprezzo «il pretino intrigante di Caltagirone» già come vice-sindaco della sua città e soprattutto come vicepresidente dell’Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci) aveva voluto far partire una rivoluzione civile e culturale partendo proprio dal livello territoriale e politico più vicino alle popolazioni: il Comune, per salire poi alle Province e, soprattutto, alla Regione, che resta il suo capolavoro istituzionale.

Profondamente convinto della vivacità e sanità proveniente dai “corpi intermedi” tra il singolo individuo (facilmente schiacciato dalla pesantezza delle istituzioni del liberalismo del tempo) e lo Stato, onnivoro, famelico di tasse e dominato dalle culture burocratiche e accentratrici, aveva visto nei Comuni e nella Regione quei corpi organici che, insieme alle famiglie, alle associazioni – operaie, artigianali, contadine – e ai nascenti partiti politici popolari di massa, potevano avviare, nel XX secolo, la modernizzazione dell’Italia, partendo proprio dal suo Sud.

Si spiega così la grande importanza che, nell’Appello ai Liberi e Forti, viene riconosciuta alle autonomie locali. Nell’anno centenario può essere ancora utile riprendere in mano il punto 5: «Libertà ed autonomia degli enti pubblici locali. Riconoscimento delle funzioni proprie del comune, della provincia e della regione, in relazione alle tradizioni della nazione e alle necessità di sviluppo della vita locale […]».

Si tratta di un vero programma politico di reimpostazione, dal basso, della macchina dello Stato, che doveva poter contare su forze nuove, su idee fresche e su masse popolari non più subalterne. Cominciando nei Municipi e, più avanti nel tempo nelle Regioni, a prendersi cura della cosa pubblica, con una efficiente e non corrotta amministrazione giorno dopo giorno. Tanto grande era in lui la fiducia nelle istituzioni che dovevano essere create da indurlo a dedicare alla “Regione nella Nazione” la relazione politica di apertura del terzo Congresso del Ppi (Venezia 1921).

Non fu certo per caso che il fascismo trionfante dal 1925/26 soppresse le elezioni comunali; fece dei Comuni solo degli ingranaggi dell’amministrazione burocratica dello Stato e non volle sentir parlare di Regioni dotate di una qualche autonomia. Si dovette aspettare il 1948 perché la Costituzione repubblicana istituisse, almeno sulla carta, le Regioni e facesse riemergere l’autonomia delle comunità locali ordinate in Comuni.

* docente di Diritto costituzionale, Università Cattolica


Nono articolo di una serie dedicata ai cento anni dall’Appello ai liberi e forti di don Luigi Sturzo