Sul suo profilo Facebook si definisce: “Gli occhi dell’Afghanistan”. Ama il suo Paese e lo racconta con le sue fotografie. Akef Mussafer, fotografo freelance, è uno studente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, dove frequenta la facoltà di Scienze linguistiche grazie a una borsa di studio del Centro di Ateneo per la Solidarietà internazionale (Cesi) finanziata interamente con i fondi del 5x1000 destinati all’Ateneo. Per iniziativa del Centro pastorale dell’Ateneo, ha visto i suoi scatti esposti nella mostra fotografica Vita. Un Afgano tra i suoi, inaugurata martedì 28 marzo.
Akef ci ha raccontato la storia che l’ha condotto tra i chiostri di largo Gemelli. «Sono qui da tre anni. In Afghanistan lavoravo per un'azienda che dava supporto logistico alle truppe Nato e sono venuto a contatto con gli italiani stanziati in quella zona» ci dice. «Ho conosciuto il cappellano militare e siamo diventati amici. Gli ho raccontato che mi sarebbe piaciuto frequentare un’università all’estero, anche se studiavo già giornalismo nel mio Paese. Grazie a lui, ho avuto la possibilità di venire in Italia e approfondire la materia che mi piace: Scienze linguistiche per le relazioni internazionali. I giornalisti devono essere preparati sul mondo».
Com'era la situazione in Afghanistan? «La quotidianità in Afghanistan non è paragonabile a quella italiana. Possiamo definirlo un Paese nuovo in senso metaforico, perché dalla fine del 2001 ha ricominciato da zero e le differenze si possono vedere in qualsiasi ambito sociale. Ci sono ancora troppi attentati, l’insicurezza è molta, però la maggioranza della popolazione è ottimista. Qui invece c’è pessimismo nonostante la situazione sia migliore. Non vuole essere, ovviamente, una critica: mi trovo bene nell'ambiente che frequento: le persone conoscono il senso dell’accoglienza, abbiamo la stessa ironia e lo stesso humor».
Che Afghanistan metti in mostra? «Ho vissuto la guerra ma con questa mostra voglio far conoscere i lati positivi del mio Paese, perché per vedere le immagini del conflitto basta andare su internet. Non si parla molto dei cambiamenti positivi che stanno avvenendo, come l’aumento dell’alfabetizzazione, anche femminile, e di quanto sia cresciuta la percentuale delle donne che lavorano».
Da dove nasce la passione per la fotografia? «L’ho amata sin da bambino. Per me ogni persona è unica e fotografarla è come bloccare il tempo e renderla immortale. La gente mi affascina, perché è piena di storie da raccontare. Già da piccolo ero curioso di conoscere la vita di chi incontravo e, appena ho avuto la possibilità, ho iniziato a fare le foto. È diventata la mia passione, e poi mi piace la macchina fotografica in sé, amo il rumore dello scatto».
Come nasce la mostra Vita. Un Afgano tra i suoi? «Avevo tante foto. Ho iniziato a farle seriamente dal 2010, perché volevo far conoscere il mio popolo. Ogni immagine racconta mille storie e, invece di narrarle una per una, ho deciso di raccoglierle in una mostra fotografica. Voglio descrivere l'Afghanistan dal mio punto di vista, con l’occhio di un afgano, esattamente come l’Italia può essere raffigurata nella sua essenza solo da un italiano. Il Centro Pastorale mi ha dato questa possibilità e ringrazio tantissimo chi mi ha aiutato. Vorrei trasmettere un messaggio di ottimismo e spingere le persone ad abbandonare i propri preconcetti, per comunicare e costruire un mondo migliore».
Da giornalista, quale consiglio darebbe ai media italiani? «Di diventare un po' più ottimisti, non solo sulle questioni esterne ma anche su quelle interne. Quando accendo la Tv e ascolto le notizie al telegiornale, mi sembra di essere tornato in Afghanistan quando c’era la guerra. Qui c’è crisi, e non si può negare, ma non c’è una guerra e bisognerebbe apprezzare di più quello che si ha, perché la vita è bella».