Nella campagna elettorale europea Università e ricerca non sono stati al centro dell’agenda politica. Eppure se c’è un collante che lega i Paesi dell’Unione europea è il network della comunità scientifica e la rete degli scambi studenteschi che, a partire dal lontano 1987, ha visto crescere la cosiddetta “generazione Erasmus”.
Da allora, 9 milioni di studenti, di cui 843.000 italiani, hanno studiato in università di altri Stati, accolti in 5.000 istituti di 33 Paesi diversi. E si prevede che nel 2021-2027 altri 12 milioni di giovani partiranno per poi cercare un lavoro nel mercato unico europeo. Per lo stesso periodo il nuovo Programma Horizon Europe ha già messo a bilancio 120 miliardi di euro per la ricerca.
«Se si è parlato poco di università è anche perché in certe aree politiche si sta diffondendo una ridotta fiducia su come ricerca, scienza, cultura possano contribuire allo sviluppo» afferma il professor Pier Sandro Cocconcelli, delegato del rettore per il coordinamento dei progetti di internazionalizzazione. «Questo interesse però è ben presente nelle nuove generazioni che sono sempre più aperte a investire nel loro futuro, impegnandosi in periodi di studio e di ricerca all’estero, che considerano un passo fondamentale per costruirsi un curriculum di alto livello».
Che ruolo ha giocato l’Erasmus in questa prospettiva? «L’educazione è stato uno dei principali motori nel creare identità europea proprio grazie al programma Erasmus. Ogni anno centinaia di migliaia di studenti - nel 2017 sono stati 297mila - studiano in altri Paesi. I dati dimostrano un successo enorme ed esprimono la possibilità di aprirsi al mondo, al concetto di internazionalizzazione per un gran numero di studenti e non solo. Questo progetto ha consentito anche una grande mobilità per i docenti e ultimamente anche per il personale amministrativo delle università. Si è creato un ambiente dove per uno studente è normale pensare di trascorrere un periodo di studio in un altro Paese europeo e considerarlo parte integrante del proprio percorso formativo».
Che peso ha avuto l’Unione europea nel sostegno alla ricerca scientifica? «A partire dagli anni Novanta ha avuto un ruolo fondamentale per stimolare il sistema della ricerca europea. È stata una scelta politica estremamente lungimirante, fondata sull’idea che solo creando delle reti ampie fosse possibile competere con i maggiori attori della ricerca, a quel tempo gli Stati Uniti. Oggi potremmo aggiungere alcuni Paesi asiatici come la Cina. Aver creato un ambiente comune nella ricerca è stata una scelta “capace” di futuro. Alcuni temi definiti “societal challenges” - cioè l’ambiente, la salute, la sicurezza degli alimenti - necessitano di un insieme di competenze e di eccellenze che si trovano quando il bacino è più ampio, quindi passando da un singolo Stato nazionale ai 28 Stati membri».
Un network di ricerca sovranazionale di alto livello… «Tutto questo assume ancora più importanza perché si sono ridotti i finanziamenti nazionali, mentre sono aumentati quelli europei che hanno indotto i ricercatori delle scienze umano-sociali, delle scienze esatte, della biologia, a spostarsi su una ricerca multinazionale all’interno dell’Unione Europea. Per accedere ai fondi di ricerca bisogna passare da un sistema di ricerca nazionale a quello della ricerca europea, che sarà sempre più aperto a nuove collaborazioni con altri grandi partner come Cina, Stati Uniti o Paesi emergenti. È stato già così con il progetto Horizon 2020, il framework della ricerca che sta finendo adesso, e ancor di più sarà così con Horizon Europe, il prossimo framework della ricerca che partirà dal 2021, a cui sarà destinato un investimento di 120 miliardi di euro».
Come si rapporta il modello europeo con quelli statunitense e cinese? «Per molti aspetti l’Europa ha raggiunto e anche superato questi sistemi: il fatto di essere passati da un modello di singoli Stati nazionali a uno aggregato e cooperativo ha fatto sì che l’Europa sia nei primi posti al mondo su diverse aree della ricerca. Non sono modelli che dobbiamo emulare, ma con i quali ci dobbiamo e ci stiamo confrontando: sono differenti dal nostro. A oggi sono competitor a pari livello e sempre più lo saranno».
Quali saranno le prossime politiche dell’Unione in materia? «L’obiettivo è aumentare i rapporti tra mondo della ricerca, imprese e cittadini europei e promuovere l’innovazione. È a questo che aspira il nuovo progetto Horizon. Si vuole creare un’area dove la ricerca deve essere sempre di alto livello ma sempre più rivolta a varie discipline. I temi non devono essere più affrontati in modo singolo ma con approcci multi e trans disciplinari, unendo le differenti competenze presenti nei diversi Paesi europei o anche extraeuropei, nel caso di collaborazioni internazionali. Questo è uno degli obiettivi che il nuovo programma quadro vuole proseguire».