di Roberto Brambilla *
Lo tsunami del Coronavirus, in poco meno di un mese, ha travolto nell’incertezza un mondo dominato per lo più da certezze. Al momento, non sappiamo ancora che cosa ritornerà a essere come prima e che cosa no. Ma dopo il limbo di queste settimane “sospese” sono in molti a chiedersi che cosa accadrà e quali scenari si apriranno.
Da decenni diciamo che il mondo cambia rapidamente – forse troppo – e che le accelerazioni generate dall’impatto della scienza e della tecnologia inducono non poche trasformazioni nella vita personale e sociale di ognuno. Fino a oggi, però, il progresso è avvenuto in qualche modo per via lineare, ci si poteva aggiornare, si riusciva a stare al passo. C’erano, certo, dei settori in cui le innovazioni avanzavano in maniera disruptive, tuttavia nel giro di breve tempo con una adeguata rincorsa si poteva colmare il divario e riprendere il ritmo. Il Covid-19 sta creando invece una frattura non solo importante, ma soprattutto imprevista, che porterà con sé conseguenze di cui oggi non riusciamo nemmeno a vederne l’inizio, se non addirittura comprenderne la portata.
Quale sarà l’impatto finale del virus? Che mondo lascerà? Su quali basi ripartirà la macchina produttiva e dei servizi? Quale sarà il tessuto economico-sociale che dovrà garantire la sopravvivenza del sistema? Quali professioni risulteranno maggiormente necessarie allo sviluppo dei nostri Paesi? Si dice spesso che più del 60% dei lavori che saranno svolti nei prossimi 10 anni ancora non sia stato inventato: saremo preparati a operare in un mondo nuovo, diverso dal presente?
Il politologo Gianfranco Miglio – preside della Facoltà di Scienze Politiche della Cattolica tra il 1959 e il 1989 - già nel 1969 scriveva che “Fino al primo quarto del XX secolo, il ritmo di invecchiamento delle cognizioni coincideva con l’arco di vita di una persona; uno specialista - un tecnico della produzione, un professionista, un dirigente - invecchiava ‘professionalmente’ praticamente con lo stesso ritmo con il quale invecchiava biologicamente; quando giungeva al limite della sua vita, era anche superato il bagaglio di mezzi culturali, di cognizioni, di tecniche di cui disponeva. Questa situazione è ora rapidamente e totalmente mutata; oggi una persona che completi a 22 anni gli studi, se non si ‘aggiorna’ continuamente – cioè se non si tiene al corrente dei nuovi sviluppi tecnici e scientifici che si producono nel suo ramo – a 30-35 anni è già quasi ‘superata’. Si radica qui l’esigenza sempre più imperiosa di una istruzione permanente; non basta più aver frequentato una volta l’università: più andremo avanti e più bisognerà tornarci periodicamente”.
Perfezionare le conoscenze, riformulare i saperi, raffinare le skills. Capire innanzitutto quali sono i driver del cambiamento, mettere a punto nuove strategie e infine adeguare la nostra capacità di farvi fronte.
Sono le raccomandazioni che riceviamo anche dall’Ocse, come sottolineava solo poche settimane fa Andreas Schleicher (direttore Education Ocse Parigi), in visita all’Università Cattolica. Illustrando l’importanza delle skills, Schleicher raccomandava – all’interno di un mondo che cambia - di non tralasciare l’acquisizione di quelle competenze oggi maggiormente ricercate dalle organizzazioni per far fronte all’innovazione e alle trasformazioni in atto. Insomma, non si finisce mai di imparare: lifelong learning.
Ora, la furia travolgente di questo virus ci mette alla prova dei fatti. Scuole e università sono chiuse: hanno trasformato parte della loro attività verso l’online e l’home schooling, ma incominciano anch’esse a fare i conti con una crisi che potrebbe avere tempi di soluzione tutt’altro che rapidi. Eppure, mai come in questo momento avvertiamo, nella nostra inadeguatezza, la necessità di non stare fermi e di approfittare di questo tempo di lockdown per uno sviluppo della nostra conoscenza e delle nostre skills. Quale sviluppo?
L’economista Peter Drucker sosteneva che “il più grande pericolo in tempi di turbolenza non è la turbolenza. È agire con la logica di ieri”. Se un aspetto positivo possiamo riconoscere in questa crisi, è senz’altro quello di aver messo a nudo tutte le nostre (false) certezze e di aver fatto emergere tutti i nostri (reali) bisogni. Appare chiaro come - in un periodo di forte discontinuità – l’unico baluardo al dilagare dell’incertezza sia la persona e tutto quello che una persona può imparare dalla crisi per uscirne rafforzata.
In questo senso, la formazione continua può contribuire ad allenare e irrobustire alcune delle nostre qualità che il permanere dell’emergenza sta sollecitando. Ecco, alcuni esempi.
La capacità di reagire e ripartire. La chiamiamo resilienza, attitudine a far fronte in modo positivo ad eventi traumatici, ma anche – in un’accezione più costruttiva – imprenditorialità. Lo vediamo in questi giorni di quarantena come la nostra creatività venga messa continuamente alla prova. E lo capiremo ancor più “a bocce ferme”, una volta terminati i contagi, quanto ci sarà bisogno di costruire nuovamente. Una formazione all’imprenditorialità ci può aiutare a guardare con occhi nuovi un mondo da far ripartire.
Secondo esempio: la possibilità di trovare soluzione a problemi vecchi e nuovi: è la propensione al problem solving. Già Albert Einstein affermava che “non si può risolvere un problema usando la stessa logica che l’ha generato”. Da questo punto di vista, il Coronavirus con la sua inedita formula d’attacco sta spingendo tutti a trovare non solamente soluzioni nuove, ma soprattutto approcci innovativi tanto ai problemi di ordine clinico, quanto a quelli legati all’organizzazione della società. In pratica: dovendo passare tutta la vita a risolvere problemi, occorrerà industriarsi per percorrere vie inesplorate e introdurre nuovi punti di vista.
Terzo: la facoltà di discernimento, soprattutto di fronte alla pandemia di informazioni a cui siamo tutti sovraesposti. È vero: comunicare oggi ci risulta molto facile. Quello che manca, però, è la capacità di giudizio sulle informazioni che riceviamo. Manzoni dedica una bellissima pagina dei “Promessi Sposi” a questo tema, quando parla del diffondersi della peste a Milano, e invoca a tal proposito un metodo antico per fronteggiare l’onda lunga di notizie che riceviamo e, a nostra volta, diffondiamo: “osservare, ascoltare, paragonare, pensare prima di parlare”. Occorre cioè imparare a focalizzarsi su dati essenziali e su fonti autorevoli, prima di diramare a nostra volta i nostri comunicati, abituandosi a passare al setaccio fatti e opinioni e a trattenere ciò che vale. In una società basata sull’informazione, questa attitudine può certamente fare la differenza.
Un quarto tema è la capacità di accoglienza e ascolto degli altri. In un mondo dove tutti cercano di parlare e imporsi, essere disponibili a un ascolto profondo è una qualità tanto rara, quanto preziosa. Non solamente per un atteggiamento di rispetto verso l’altra persona. Valorizzare gli altri – compagni, amici, colleghi di lavoro – è fondamentale per crescere e far crescere. Ma soprattutto lo richiede il bisogno di una concreta apertura alla realtà: “raramente gli uomini apprendono quello che credono già di sapere” scriveva nel lontano 1954 la scrittrice americana Barbara Ward. Apertura e curiosità, accoglienza e rispetto, fanno parte di una inesorabile attitudine all’innovazione e al progresso.
Last but not least: l’attenzione alla gestione del tempo, o time management. Appena scoppiata la crisi del Covid-19 ci siamo trovati tutti a casa con un tempo dapprima sospeso, poi ritrovato, infine ri-occupato. L’emergenza ci ha restituito all’improvviso un tempo che non avremmo mai pensato di avere. Confinandoci in uno spazio privato, ci ha offerto anche un nuovo tempo libero, nel quale inevitabilmente è emerso ciò che a ognuno sta più a cuore. Ci siamo scoperti artisti, cantanti, sportivi, creativi. Soprattutto ci siamo scoperti connessi, attraverso ponti virtuali che trascendono le mura domestiche. E il tempo – momentaneamente ritrovato – attraverso l’apertura infinita di spazi cibernetici, ha incominciato di nuovo a occuparsi e diventare una risorsa scarsa. Imparare a gestirlo è sicuramente un’altra lezione della crisi.
Che cosa chiedere dunque alla formazione al tempo del Coronavirus? Un aggiornamento delle competenze e un trasferimento di nuovi saperi? Una formazione, che sia veramente avanzata, non dovrebbe solamente offrire strumenti per insegnare delle tecniche di gestione, dovrebbe piuttosto insegnare a riflettere sui nuovi fenomeni che stiamo vivendo, in modo da intuirne la direzione e comprenderne lo sviluppo. Il tempo del Coronavirus è sì un tempo sospeso, che può essere però efficacemente utilizzato per formarsi, in modo da essere pronti a ripartire non appena la tempesta sarà passata.
* direttore Formazione Postlaurea e Research Partnership