di Agostino Giovagnoli *
Il viaggio in Mozambico, appena concluso, conferma che l’Africa è importante per papa Francesco. Ha già visitato questo continente nel 2015 compiendo un gesto di grande importanza simbolica: l’apertura “mondiale” anticipata dell’Anno Santo nella cattedrale a Bangui in Centrafrica dove si è recato non senza rischi per la sua persona. Non è l’unico segno della sua attenzione.
È ad esempio eloquente il modo ravvicinato con cui segue le tormentate vicende del Sud Sudan dove - lo ha dichiarato più volte - vorrebbe recarsi insieme al primate anglicano Welby per favorire la pace (e anche in questo caso sarebbe un viaggio rischioso).
Francesco non guarda all’Africa con occhi da europeo. Non ci sono in lui atteggiamenti paternalistici e neppure i sensi di colpa da ex-colonizzatore. Non è neanche andato in Mozambico per denunciare le colpe del mondo verso questo continente e le molte ingiustizie di cui è vittima, anche se i suoi discorsi mostrano che ha ben presente tutto questo. Durante questo viaggio ha cercato soprattutto di guardare le cose con gli occhi degli africani. E ha individuato nel futuro la chiave principale dei loro problemi.
È un approccio che coglie anzitutto un dato demografico importante: l’alto numero di giovani. Ma non si tratta solo di questo: è decisivo che gli africani guardino con speranza al futuro e che si impegnino per costruirlo insieme. Ai ragazzi mozambicani ha ricordato il calciatore Eusebio, leggendario fuoriclasse, come “un grande giocatore di queste terre che ha imparato a non rassegnarsi”. E ha raccomandato: “non fatevi rubare la speranza”.
È in questo senso che in Mozambico ha parlato soprattutto di pace intesa non come assenza di guerra ma come impegno quotidiano per una convivenza pacifica. Da quando è finita nel 1992, la guerra civile - durata ben quindici anni - non è più riesplosa in Mozambico. Fu firmato allora a Roma, grazie alla mediazione della Comunità di Sant’Egidio, un accordo di pace che dura tuttora: è la storia di un successo. Ma come ogni guerra - specie quelle civili - anche questa ha lasciato strascichi di violenza, di odio, di rancore. «Molti di voi - ha osservato Francesco nell’omelia della messa celebrata a Maputo - possono ancora raccontare in prima persona storie di violenza, odio e discordie; alcuni, nella loro stessa carne; altri, di qualche conoscente che non c’è più; e altri ancora [hanno] paura che le ferite del passato si ripetano e cerchino di cancellare il cammino di pace già percorso».
È un terreno minato da cui può facilmente riesplodere la violenza e in Mozambico si registrano ancora episodi di tensione, conflitto e violenza. «È difficile - ha riconosciuto Francesco - parlare di riconciliazione quando sono ancora aperte le ferite procurate da tanti anni di discordia». Ma “la pace è un fiore fragile che sboccia tra le pietre della violenza», come ha detto alle autorità.
Pace «è molto di più che ignorare la persona che ci ha danneggiato o fare in modo che le nostre vite non si incrocino: è un mandato che mira a una benevolenza attiva, disinteressata e straordinaria verso coloro che ci hanno ferito”. Non per masochismo, ma anzitutto per consapevolezza realistica che “nessuna famiglia, nessun gruppo di vicini, nessuna etnia e tanto meno un Paese ha futuro, se il motore che li unisce, li raduna e copre le differenze è la vendetta e l’odio».
Papa Francesco ha ricordato che il Mozambico «possiede un territorio pieno di ricchezze naturali e culturali, ma paradossalmente con un’enorme quantità di popolazione al di sotto del livello di povertà». Sono molti coloro che non hanno alcun interesse allo sviluppo del Mozambico, stranieri che lo sfruttano e mozambicani corrotti. Ma proprio per questo, è urgente spargere «semi di gioia e speranza, pace e riconciliazione». Alle autorità ha raccomandato «il percorso che porta al bene comune, […] la cultura dell’incontro […], valori condivisi, […] superamento di interessi settoriali, corporativi o di parte, affinché le ricchezze della vostra nazione siano messe al servizio di tutti, specialmente dei più poveri».
* docente di Storia contemporanea, facoltà di Lettere e filosofia, campus di Milano