di Giovanni Bombelli *
A ben vedere si tratta di una vicenda tragicamente paradossale. Là dove non riuscì la crisi economico-finanziaria riuscì l’invisibile. Perché di questo si tratta: solo una presenza invisibile e incontrollabile, il virus, è stata in grado di bloccare la funzionalità di un intero sistema mondiale di convivenza introducendo nel meccanismo un granello esiziale.
L’invisibile (il virus) e il materiale (il modello sociale). L’invisibile che distrugge il materiale.
Ma, oltre ai riflessi immediati che toccano gli stili di vita, la pandemia sembra aver minato anche l’universo simbolico. Colpisce in particolare come, qua e là, serpeggi la sensazione, espressa in atteggiamenti immediati più che in posizioni riflesse, di una fiducia in qualche modo “tradita”.
Innanzitutto la fiducia in un modello sociale che, sin dalle origini della modernità, prometteva sicurezza e protezione. Inoltre la fiducia per un certo paradigma di conoscenza scientifica, da qualcuno accusato di non aver saputo prevenire o contenere la pandemia. Infine la fiducia nella politica e nel diritto, giudicati costantemente in ritardo o troppo lenti nel governare la situazione drammatica determinatasi.
Ancora una volta: l’invisibile (la fiducia come risorsa simbolica) e il materiale (i comportamenti).
L’invisibile che svuota il materiale. Se Georg Simmel individuava come “comportamento primario dell’anima” il fatto che “si ‘crede’ in un uomo senza che questa fede si giustifichi con prove relative alla dignità della persona, e spesso nonostante le prove in contrario” (Sociologia, 1908) l’odierno scenario appare confuso e ambivalente.
A fronte di una fiducia quasi illimitata, talora sguaiata e piena di sensi di colpa, riposta in ambiti della vita sociale di cui si “riscopre” improvvisamente la centralità (medici, virologi, insegnanti), sottotraccia si avverte una sensazione opposta e legata ad una sorta di tradimento progressivo della fiducia negli “altri”. Aspetto cruciale, in grado di condizionare pesantemente il presente e, soprattutto, il futuro dei modelli relazionali. L’opposto di quanto indicato da Simmel.
Un quadro, dunque, eterogeneo e riconducibile non tanto al contesto di “rischio” di cui parlava Ulrich Beck (La società del rischio. Verso una seconda modernità, 1986) bensì ad un orizzonte globale di incertezza (temporale e spaziale) del tutto sconosciuto, sul lungo periodo in grado di minare la fiducia collettiva determinando effetti divergenti.
Per un verso la situazione emergenziale sollecita la capacità di resilienza: dimensione tanto evocata quanto, sempre più spesso, strumentalizzata. D’altro canto talora ciò finisce per esacerbare situazioni di reciproco sospetto, nonché la pratica delle (pur irrinunciabili) forme di distanziamento spaziale o virtuale con le relative posture di prossimità (lo stare “troppo vicini” o “troppo distanti”). Dinamiche contraddittorie che possono sfociare nella paura, la forma più radicale di sfiducia, soprattutto ove esse vengano amplificate dalla comunicazione globalizzata.
Merita allora soffermarsi su questa categoria così cruciale, la “fiducia”, alla base del vivere associato e duramente messa alla prova in frangenti di straordinaria complessità come quelli che stiamo attraversando. Volgendosi al suo significato originario (fides), essa sembra rinviare alla duplice accezione di “affidamento” e “credenza”, quasi analogamente ai termini inglesi trust e belief. La fiducia implica sempre una qualche forma di “credenza”, nel senso che ci si “fida” perché si “crede” nella bontà o validità di una persona, di un’idea, di un sistema di relazioni o di regole di convivenza. Del resto già Max Weber, non a caso nella drammatica temperie segnata dalla prima guerra mondiale e da tragedie similari (come la pandemia detta “Spagnola”), rimarcava il ruolo rivestito dalla fiducia (Vertrauen) e dalla credenza (Glauben) nel costituirsi del vivere associato.
Weber non sbagliava. Il vivere insieme, quindi anche il diritto, riposa su un “affidarsi” legato a una “credenza”: si potrebbe dire una “fiducia credente” nel sistema di relazioni e in un qualche orizzonte ideale condiviso. Non solo nell’accezione tecnico-giuridica di “buona fede” o “affidamento”, due tra le molte proiezioni della disposizione fiduciaria connesse alla concreta esperienza giuridica, bensì nel senso più pregnante di fiducia nell’apparato normativo-istituzionale. In fondo anche l’antico brocardo pacta sunt servanda, ancor prima di fissare il principio ispiratore della fiducia tra Stati a garanzia dei patti sanciti, come già ammoniva Hobbes rinvia ad una qualche forma di reciproco affidamento tra consociati in vista della conservazione del contratto sociale e dei suoi momenti qualificanti (ad esempio la moneta).
Ciò tocca immediatamente la situazione che stiamo vivendo, ove l’ambivalenza fiducia-sfiducia si gioca sulle coordinate temporali di passato, presente e futuro. In rapporto al passato, come osservato, la sensazione è che a “tradire” sia stato il modello sociale di matrice moderna: con riguardo sia alle promesse di un progresso ininterrotto, costellato da sicurezze e tutele crescenti, sia ad alcune sue recenti articolazioni. Si pensi alla singolare eterogenesi dei fini della globalizzazione che, da motore elettivo della tarda o post-modernità, proprio in virtù dei suoi tratti peculiari si è rivelata il fattore forse decisivo dello straordinario grado di diffusività del virus.
La fiducia recita ovviamente un ruolo fondamentale anche nel presente. Innanzitutto in rapporto alle speranze riposte nella ricerca scientifica. Da essa si attende non solo la capacità di reperire, in tempi più o meno ragionevoli, una terapia efficace ma altresì di contribuire, in termini di expertise, alle soluzioni da adottare nell’immediato (di qui il ruolo riservato ai comitati tecnico-scientifici a supporto delle policies).
Ma la fiducia viene riposta anche nell’intervento politico-normativo, dimensione densamente simbolica, cui si chiede un duplice sforzo. L’emanciparsi dai precedenti errori e manchevolezze, cui da qualche parte si addebitano anche gli effetti della situazione odierna, nonché la capacità di porsi all’altezza dell’attuale complessità sociale ridisegnando la scala delle priorità. Di qui l’impegno che dovrebbe connotare la sfera giuridica nel comprendere la genesi dell’accaduto (la possibile connessione tra politiche e fattori eco-ambientali) e, in termini più immediati, nell’adottare scelte equilibrate tra prevenzione, controllo sociale e tutela della sfera individuale (il tema del regime sanzionatorio).
Tuttavia non si può disgiungere lo sforzo normativo dalla fiducia nella reciproca capacità di comprendere il senso del precetto, rinunciando quindi ad essere meri destinatari passivi. Nessuna sanzione, anche di natura penale, sarà in grado di inculcare nei consociati la convinzione (intesa appunto come “fiducia” o “credenza”) circa la fondatezza e la sensatezza della misura adottata. Tale convinzione in qualche modo deve risiedere già “nella testa” di ognuno, costituendo la condizione del reciproco affidamento.
Infine l’orizzonte futuro. Qui la fiducia in qualche modo trascolora nella speranza: una fiducia-speranza. Speranza in un nuovo “patto normativo” che già in origine, sul piano dell’elaborazione delle regole, muova da orizzonti di fiducia reciproca: l’odierna crisi dell’Unione Europea non è forse la riproposizione di una crisi di “fiducia” nell’istituzione europea?
Dovrà allora maturare un nuovo modello di fiducia. Non come mero superamento della diffidenza e del sospetto: questa è una fiducia minimale, passiva o difensiva, che con tutta probabilità caratterizzerà l’immediato “dopo” pandemia (la cosiddetta “Fase 2” e le eventuali fasi successive). La nuova forma di fiducia dovrà essere proattiva e progettuale, originando modelli concreti di collaborazione soprattutto in prospettiva intergenerazionale, ispirata a quel “principio-responsabilità” (Prinzip-Verantwortung) di cui parlava Hans Jonas reinterpretando il “principio-speranza” (Prinzip-Hoffnung) prefigurato da Ernst Bloch.
Ecco allora, ancora una volta, il punto fondamentale intuito da Simmel: la fiducia negli altri (presenti e futuri).
Se, come segnala Salvatore Natoli, esiste un “rischio di fidarsi” (Il rischio di fidarsi, 2016) è anche vero che l’atteggiamento fiducioso non può ripiegarsi sulla mera funzione di preservazione dell’esistenza. Nella fiducia-credenza va intravisto, semmai, un elemento strutturale dell’identità stessa dei consociati anche nei termini di quell’“etica del volto” prefigurata da Emmanuel Lévinas (Totalità e infinito, 1961): un modello di vivere associato che prescinda da qualsiasi orizzonte di fiducia reciproca appare logicamente impensabile. Del resto, ove non fraintesi o strumentalizzati, alcuni fenomeni registratisi in coincidenza con l’emergenza pandemica (dalla mobilitazione su base volontaria al senso di responsabilità mostrato da molte figure sociali nell’adempimento dei propri doveri) sembrano andare in questa direzione riattivando circuiti lato sensu fiduciari-comunitari.
Prende così corpo quell’orizzonte di solidarietà e sussidiarietà, intessuto dell’irrinunciabile riferimento alle “formazioni sociali”, mirabilmente disegnato nel testo costituzionale e la cui condizione di possibilità è rappresentata appunto dalla fiducia nella cooperazione solidale intesa come dimensione generativa di doveri (i rapporti etico-sociali evocati nel Titolo II della Costituzione).
Di qui il circolo virtuoso tra fiducia e credenza (l’invisibile) che, in ultima analisi, sta all’origine delle figure della libertà e della responsabilità in grado di plasmare la concretezza delle relazioni sociali (il materiale).
Dunque: fiducia, relazione, norme, istituzioni. In passaggi storicamente drammatici e di emergenza acuta, come quelli che stiamo sperimentando, l’“affidamento” relazionale e la “credenza” nella sensatezza dell’ordinamento costituiscono i contrafforti che garantiscono la tenuta del tessuto socio-normativo (ancor prima delle concrete opzioni istituzionali: si pensi al dibattito sulla capacità di risposta dei sistemi sanitari di fronte alla pandemia e all’eventuale riarticolazione del binomio sfera pubblica-sfera privata).
Di contro alla sfiducia crescente negli assetti democratico-liberali, di cui da più parti si lamenta più o meno fondatamente l’intrinseca debolezza, vale forse la pena ripensare e riscoprire il senso comune e le ragioni di fondo che ne stanno alla base così come essi sono plasmati nelle radici costituzionali.
Una situazione non nuova. La genesi del nostro modello repubblicano non fu anche un grande atto di fiducia, segnando una rinascita quasi miracolosa dalle ceneri di una rovinosa sconfitta?
A conferma che l’invisibile può anche generare il materiale.
* Docente di Filosofia del diritto e Metodologia e informatica giuridica nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica
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