«Una rabbia sociale che ha anche radici economiche». Raul Caruso, docente di Economia della pace nella facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere dell’Università Cattolica, fornisce una chiave di lettura economica delle proteste che, dopo la morte dell’afroamericano George Floyd a Minneapolis, stanno incendiando gli Stati Uniti. «Non è più un mistero ma è ormai una cosa nota a tutti gli economisti e policy maker che in generale nel mondo e soprattutto negli Stati Uniti la disuguaglianza è aumentata in maniera sostanziale già all’indomani della crisi del 2008. Così le categorie più vulnerabili dei lavoratori americani si sono viste sempre più lontane da un numero ridotto di persone decisamente più ricco», spiega il professor Caruso.
Per quale motivo? «Negli Stati Uniti la forbice si è allargata notevolmente per via di un mercato del lavoro flessibile e non regolamentato con la conseguenza che i salari reali di una buona fetta di popolazione sono diminuiti ancora di più. La disuguaglianza tra i lavoratori unskilled, di cui purtroppo ne troviamo molti tra gli afroamericani, e il resto del Paese è andata aumentando. All’origine di questa rabbia c’è la consapevolezza da parte degli afroamericani che la loro vita dal punto di vista sociale è considerata davvero all’ultimo livello possibile. Una disuguaglianza fondata sul pregiudizio razziale che alla fine si traduce in esclusione economica».
Il basso tasso di scolarizzazione degli afroamericani incide? «Negli Usa, a differenza dei sistemi europei, esiste una maggiore correlazione tra la capacità di ottenere un certo reddito e i livelli educativi. La popolazione afroamericana storicamente è penalizzata anche perché i suoi livelli di scolarizzazione sono più bassi rispetto a quelli dei bianchi: il fatto che non esista un sistema scolastico pubblico comparabile e in grado di fare concorrenza al sistema privato ha ingenerato una disuguaglianza che prima ancora di essere reddituale è una disuguaglianza delle opportunità. Lo sa bene il premio Nobel per l’economia James Heckman, che da molti anni sta portando avanti un’iniziativa culturale scientifica importante, raccontata nel 2009 anche in Università Cattolica. A partire da un’esperienza reale di Chicago dimostra come l’investimento educativo sulle minoranze afroamericane nei momenti iniziali della vita dei bambini si è rivelata vincente dal punto di vista di indicatori di performance lavorativa di vario tipo. Eppure nonostante i suoi studi, condotti molti anni fa, si può dire che negli Stati Uniti non è cambiato niente. Forse le cose sono peggiorate».
C’è una lunga lista di rivolte di questo tipo: gli scontri di Detroit (1967), quelli di Los Angeles (1992) fino ad arrivare ai giorni nostri… «Queste proteste nobilitano nel giudizio storico la figura per eccellenza della cultura dei diritti civili, e da cui non possiamo prescindere, il reverendo King. Osservando le battaglie a Minneapolis, a Washington, a New York capiamo la grandezza di Martin Luther King e del suo approccio non violento. Dopo l’arresto di Rosa Parks sull’autobus, dopo la marcia di Selma la popolazione afroamericana intraprese una campagna profondamente moderna di non violenza, dando vita al movimento di pace sociale più efficace nella storia del secolo scorso».
Che cosa bisogna fare allora per arginare questa forma di esclusione socio-economico? «La scuola e altri servizi pubblici, come la sanità, da sempre limitano il disagio sociale e la violenza che da esso ne deriva. Non risolvono tutti i problemi ma dato che negli Stati Uniti questo tipo di Welfare State non esiste sarà difficile uscirne, al di là degli aspetti culturali, di pregiudizio razziale e storici. Come pure delle forti resistenze sociali. Basti ricordare l’enorme opposizione che incontrò Obama quando cercò di riformare il sistema sanitario statunitense. C’è da superare, quindi, un problema culturale vero per incrementare lo Stato sociale. Le giovani generazioni sono più avanti. Ma, come le età dei candidati alla presidenza dimostrano, anche negli Stati Uniti si comincia ad avere un tappo all’avanzamento dei giovani. L’America sta diventando una gerontocrazia come l’Europa che, forse, paradossalmente sta ringiovanendo».