A cura di Roberto Brambilla
Spesso i cambiamenti arrivano da lontano e hanno radici profonde. Si generano in luoghi avanzati del pianeta e, per effetto della globalizzazione, si propagano incontrollati a macchia d’olio. Non di rado, nelle ultime decadi, abbiamo imparato a guardare oltreoceano per cogliere i primi sintomi di fenomeni che, di lì a pochi anni, sarebbero approdati, magari trasformati o rivestiti di forme autoctone, anche nel vecchio continente. Questo vale tanto per le crisi economico-finanziarie, quanto per le mode o i mutamenti culturali di una società.
Uno sguardo all’esperienza americana ci può aiutare a individuare alcune dinamiche che ritroviamo oggi nell’evoluzione dei sistemi educativi, con particolare riguardo ai problemi dell’Università.
L’occasione di un semestre sabbatico in Italia, attualmente in corso per studiare come diversi sistemi costituzionali nel mondo tutelano il diritto all’educazione e la libertà di educare, ci ha permesso di incontrare Paolo Carozza (a sinistra), direttore del Kellogg Institute for International Studies alla University of Notre Dame, in Indiana, ed esperto di diritti umani e sistemi di Higher education. Gli abbiamo rivolto alcune domande sulle prospettive delle università nel terzo millennio, in un contesto informale: una pausa pranzo con assaggi di gustose, morbide focacce.
Professor Carozza, la sua professione l’ha portata a viaggiare in tutto il mondo e visitare alcune tra le più prestigiose università internazionali. Come giudica l’attuale panorama della formazione superiore. Le università rispondono ancora ai bisogni delle società che le hanno create? «Molto è cambiato negli ultimi decenni, nella società, nella politica, nell’economia. E l’università attuale risente di tutte queste trasformazioni. Ovviamente la mia esperienza è basata sul contesto degli Stati Uniti, anche se mi sembra di ritrovare alcuni fenomeni simili anche qui in Europa».
A che cosa si riferisce? «Penso in particolare agli accenni di una crisi, che sembra ormai diffusa. È vero, non è un fenomeno nuovo. Ne parlava già Christopher Dawson agli inizi degli anni Sessanta nel suo libro The Crisis of Western Education. Ma oggi mi pare di scorgere qualcosa di più profondo e preoccupante. I problemi che viviamo nelle nostre università sono radicati in questioni di tipo culturale, legate alla crisi della cultura contemporanea occidentale».
Ovvero… «Stiamo assistendo certamente a difficoltà di tipo economico, che le università devono fronteggiare. Negli Usa lo stato finanzia gli atenei, ma per garantire certi standard i costi di accesso rimangono ancora molto alti e questo si ripercuote non solo sulle famiglie, bensì anche sulla modalità di far quadrare i bilanci da parte del management universitario. C’è tuttavia una crisi ancora più significativa di quella economica ed è quella che riguarda l’identità delle Università. Perché sono nate? Perché esistono? A che cosa servono? Come rispondono alle questioni più profonde della vita umana?».
È un’osservazione radicale. Ci aiuti a capire. Dove si rendono evidenti, o per lo meno espliciti, i segni di questa decadenza? Quali sono i sintomi di questa endemica malattia? «Potrei citare l’emergere di alcuni fenomeni ben precisi, che incontro quotidianamente all’interno del mio lavoro. Il primo riguarda innanzitutto gli studenti e la loro preparazione. I ragazzi escono dall’Università senza aver imparato molto, in termini analitici e di ragionamento complesso. La conoscenza viene sostituita da informazioni che loro prendono “a consumo”, come al supermercato. Manca una vera capacità critica. Escono dalla laurea a un livello poco più alto delle High Schools. C’è poi un problema di concezione istituzionale».
Che cosa intende? «L’Università si è trasformata in una realtà amministrativa, gestita come una grande azienda. Può essere anche un bene, rispetto alla sua complessità. Ma non appartiene più ai docenti, con il rischio di sostituire la dimensione umana dell’educazione, con una visione più tecnocratica, incentrata sulle performance. Da qui la tentazione di misurare tutto. Misurare è sicuramente efficace, ma spesso anche riduttivo della reale portata della dimensione scientifica e culturale degli atenei. Nel tentativo di misurare, si rischia di sottovalutare, o addirittura cancellare, le ricchezze del pensiero e dell’azione umana».
In questo scenario un po’ preoccupante quali spazi sussistono per la ricerca libera e per uno sviluppo della conoscenza che sia duraturo e sostenibile nel tempo? «Anche qui ho qualche osservazione critica. L’insistenza – almeno negli Stati Uniti – sulla cosiddetta “relevance” della ricerca in termini di incidenza scientifica e impatto innovativo può far distogliere l’attenzione dalle reali necessità del sapere unitario. Ci si specializza in modo esagerato, si frammenta la conoscenza e questo provoca un cambiamento di paradigma: la stessa etimologia di “uni-versità” intesa come sapere intero, unico, viene messa in discussione a favore di una visione “multi-versitaria”. Occorre potersi riappropriare del senso più profondo di questa importante istituzione».
In che modo, professore? In un panorama come quello descritto la pars construens appare un po’ ardua… «Ci sto pensando da tempo. Abbiamo bisogno di ripensare le strutture, è vero. Ma le strutture non cambieranno mai, se prima non si generano soggetti nuovi che si dedichino a questo ripensamento sulla base del senso originario dell’Università. L’Università nasce nel medioevo per rispondere a bisogni ben precisi. Qual è il suo scopo, oggi? Serve in primo luogo ritornare a una conoscenza profonda della cultura, intesa come consapevolezza del significato ultimo della realtà. E poi, pensare a chi potrà portare avanti il nostro lavoro nel futuro, dedicarsi a formare le prossime generazioni».
Da dove partire in questa impresa, mi lasci dire… titanica? «Innanzitutto dal prendere coscienza dei problemi che ci sono. Questo è un primo passo, necessario. Capire, ragionare, porsi domande sulla situazione attuale. In secondo luogo, farlo insieme ad altri. Scoprire tra colleghi e amici chi ha a cuore le nostre stesse preoccupazioni, metterle in comune, cercare insieme possibili soluzioni. Creare luoghi e spazi di libertà dove sperimentare, nel piccolo, i benefici di una visione culturale ampia».