Un reparto di Terapia intensiva “aperto”, accessibile ai familiari dei degenti, soprattutto se si tratta di bambini, è un modo per alleviare la sofferenza dei malati, ma anche per proteggere gli stessi familiari da ansia, stress depressione e sindrome da stress post-traumatico, che possono perdurare anche a molti mesi dalla dimissione dei propri cari. La Terapia intensiva ha bisogno di un re-styling che la renda accogliente e umana per le persone ricoverate e i familiari, senza limitare per questo l’efficacia delle cure che vi sono erogate.
È uno dei principali argomenti del convegno “Caring for patients in ICU: the times they are changing”, promosso dal Centro di Ateneo per la Vita dell’Università Cattolica del Sacro Cuore in programma il 19 dicembre nel centro Congressi Europa (sala Italia, largo Francesco Vito 1, ore 10 – 18). Scopo primario del convegno è «tracciare un panorama nazionale e internazionale sull'importanza degli aspetti etici e umani nell'erogare le cure ai pazienti più fragili, coniugando competenza ed efficienza con l'umanità e la condivisione, attraverso corrette strategie comunicative e processi educazionali», spiega il professor Massimo Antonelli,responsabile della Uoc Pronto Soccorso, Rianimazione e Terapia intensiva del Gemelli, presidente della Società italiana di Terapia intensiva e anestesia e direttore del Centro di Ateneo per la Vita dell’ateneo.
«Per molto tempo – aggiunge Antonelli - si è pensato che comunicare con i malati e con le loro famiglie significasse semplicemente trasmettere informazioni. Oggi, in Terapia intensiva (Ti), l'obiettivo della comunicazione è quello di condividere». È dimostrato infatti che così facendo la comunicazione concorre a migliorare la qualità della cura del paziente e contribuisce al miglioramento dell’outcome e al benessere dei suoi familiari. In quest’ottica è importante garantire un supporto emotivo, spirituale e pratico per i malati e le famiglie. Ed è sempre in quest’ottica che «gli ospedali italiani si devono impegnare per creare le cosiddette “Ti aperte”, ovvero reparti che abbiano tra gli obiettivi di cura quello di ridurre tutte le limitazioni non motivate relative alla presenza dei familiari, abolendo barriere temporali, come il tempo in cui il familiare viene accolto in reparto, ma anche quelle sul piano fisico-relazionale: occorre consentire ai familiari di avvicinarsi al proprio caro che in una “Ti” classica non può essere toccato, accarezzato e baciato, e abbattere barriere fisiche rappresentate da indumenti protettivi, guanti, camici che non hanno una reale utilità o funzione medica e di sicurezza clinica», spiega Alberto Giannini, dirigente medico della Terapia intensiva pediatrica - Fondazione Irccs Ca' Granda - Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, tra i relatori del convegno.
«Col passare degli anni – precisa Giannini - ci si è resi conto che il ricovero in Ti comporta un costo aggiuntivo in termini di sofferenza per il paziente, che non è legato alla sua malattia, ma solamente alla distanza delle persone care; inoltre si è studiato il vissuto dei familiari vedendo che tra questi vi è un’altissima incidenza di ansia e depressione». Un terzo dei familiari vive una condizione di stress post-traumatico nei giorni della degenza, condizione che perdura mesi dopo le dimissioni del parente ricoverato (anche a 12 mesi di distanza dalla dimissione il 25% dei genitori di un paziente in Ti pediatrica vive una condizione di sofferenza e stress post-traumatico).
Numerosi studi hanno dimostrato che rendere più accessibili le Terapie intensive riduce i livelli di ansia e i marcatori ormonali di stress, nonché le complicanze cardiovascolari per i pazienti. L’apertura delle Ti si gioca su tre diversi livelli, ribadiscono gli esperti: temporale, fisico e relazionale per migliorare la comunicazione tra medico, paziente e famiglie. In Italia, purtroppo, la Ti fatica ad adeguarsi a queste esigenze. Infatti, da un recente studio multicentrico condotto in Francia emerge che la metà delle famiglie di un paziente in Terapia intensiva riferisce di aver sperimentato una cattiva qualità della comunicazione con i medici. È questo soprattutto un problema culturale. Basti pensare che in Svezia il 70% delle Ti non pone limiti alle visite, il 20% in Gran Bretagna. In Italia i numeri sono molto diversi: solo il 2% dei reparti di Terapia intensiva non pone limite di visite nelle 24 ore; il quadro migliora per le Terapie intensive pediatriche che nel 12% dei casi sono aperte. In Italia le Ti per adulti concedono in media due ore di visita al giorno; 5 ore per quelle pediatriche, ancora troppo poco. Inoltre un quarto dei reparti di Terapia intensiva italiani non ha la sala d’aspetto per i familiari.
Rianimazione aperta, precisano gli esperti, non vuol dire un reparto senza regole, o con minore attenzione per le norme igieniche (come semplici ma importanti presidi quale il lavarsi le mani prima e dopo l’ingresso in terapia intensiva). «Molte di queste norme di comportamento sono raccomandazioni soprattutto per medici: infatti il pericolo per il paziente non è rappresentato dal parente che viene in visita in reparto, ma da noi medici e infermieri», considera il dottor Giannini. «Una Terapia intensiva progettata e costruita con porte e menti aperte, fornisce ai familiari il supporto necessario per partecipare a tutte le scelte terapeutiche e la fiducia indispensabile per sentirsi parte del processo assistenziale», conclude il professor Antonelli. «Questo approccio da parte del team curante, lungi dall’essere soltanto una delle possibili opzioni dell’etica medica, è oggi riconosciuto come un irrinunciabile strumento per rassicurare malati e familiari che chi si farà carico di loro ha buone motivazioni morali anche per offrire la migliore qualità delle cure».