Nel racconto "L'immortale", Jorge Luis Borges descrive la storia di un uomo, un tribuno romano, che parte alla ricerca della città degli immortali. Dopo lunghe traversie, arriva a una città astratta, circondata da un fiume. Capisce che è arrivato al suo destino quando parla con un uomo che recita, in modo sconnesso, qualche passaggio dell'Iliade. Capisce che sta parlando con Omero. Capisce che Omero, dopo migliaia di anni, ha dimenticato il suo capolavoro. Da molti anni Gabriel García Márquez era entrato in quella città borgesiana. Come il suo personaggio José Arcadio Buendía, il grande narratore colombiano attraversava le stanze vuote della memoria, una speculare all'altra, ritrovando i fantasmi di Aureliano, Amaranta, Ursula, e, perché no? Prudencio Aguilar. Prima che il suo corpo morisse, era diventato un immortale.
Quando era bambino, due figure gigantesche hanno lasciato una impronta incancellabile sulla sua immaginazione. Il nonno, il colonello Nicolás Márquez, che gli fece conoscere la letteratura, il dizionario della Real Accademia Spagnola, la Bibbia, Il Chisciotte. Imparò a leggere, a essere un lettore vorace e insaziabile, a inventare storie. La nonna Ursula aprì la sua mente al sovrannaturale, popolò la casa natali di fantasmi. E lo abituò a credere, senza sbattere le palpebre, nell'esistenza di un mondo dietro al mondo, dove circolavano senza difficoltà spiriti, fantasmi, ectoplasmi. Il piccolo Gabo trovò ascolto e stimolo alla sua poderosa immaginazione e al suo talento di narratore di storie.
La vita di García Márquez rappresenta il trionfo della vocazione invincibile davanti alle difficoltà. Metà della sua vita la trascorse nella povertà, a volte nella miseria, pur di mantenere la vocazione letteraria. A Parigi, rischiò la denutrizione mentre scriveva Nessuno scrive al colonello. La scena iniziale è chiaramente autobiografica: il colonnello che raschia il fondo della lattina del caffè per recuperare qualcosa è lo stesso autore, nella mansarda parigina, senza un soldo per sopravvivere. A Cartagena de Indias, dormiva sulle panchine delle piazze, finché una polmonite non convinse gli amici a dargli rifugio fra i macchinari di un giornale.
La sua vita sono le sue opere. Da Foglie morte, dove lo spirito di Faulkner aleggia sui tre personaggi che vegliano un morto, a Il colonello... secca rappresentazione della realtà colombiana, fino all'esplosione dei Funerali della Mamá Grande, Cent'anni di solitudine e L'autunno del Patriarca, il percorso vitale si intreccia indissolubilmente al percorso letterario. Ma anche il resto... Forse il più grande merito del narratore colombiano è stato quello di costruire un grande canto alla vita, in tutte le sue manifestazioni, vita amata al di là delle imperfezioni umane, così ben descritte, al di là delle sconfitte, al di là della miseria quotidiana. Si esce dalla lettura delle sue opere avidi di esperienza, vogliosi di respirare, pronti a ogni impresa. L'abbiamo amato e continueremo a amarlo perché ci dava il segreto della letteratura e dell'arte, che in fondo, non è altro che il misterioso segreto dell'esistenza.
MILANO
Dante Liano, il mio Garcia Marquez
Il professore di Lingua e letteratura spagnola, latinoamericano come lo scrittore colombiano, ricorda a pochi giorni dalla scomparsa il Premio Nobel. "Il suo grande merito? Costruire un grande canto alla vita"