Chi è come te fra i muti?» (Es 15,11). Il silenzio di Dio è uno dei temi cruciali della riflessione teologica, filosofica ed esistenziale di tutti i tempi, centrale nel secolo dell'olocausto e degli stermini di stato. Numerosi sono i poeti e i romanzieri che si sono interrogati sul senso e sull’eloquenza di azioni non fatte di parole, bensì di silenzi. Tra questi spicca per profondità di pensiero e per altezza di valore letterario Fëdor Dostoevskij (1821-1881), che sullo sfondo della Russia riformata, attraverso la complicatissima macchina romanzesca de I fratelli Karamàzov, tematizza l’ateismo come rivolta contro l’impassibilità di un creatore che, diversamente da quanto sostiene la teodicea di Leibniz, forse non ha creato proprio il migliore dei mondi possibili. Un romanzo complesso e denso di questioni che il lettore non può esimersi dal prendere in considerazione, una forte esortazione alla riflessione che assume i toni di una voluta provocazione, come ha avuto modo di percepire il folto pubblico accorso giovedì 22 novembre nell’Aula Magna Tovini per il quinto appuntamento di Letteratura&Letterature. Ospite dell’incontro è stata Serena Vitale, docente di Letteratura russa presso l’Università Cattolica di Milano, scrittrice e traduttrice di chiara fama, la cui traduzione del capitolo sul Grande Inquisitore è stata letta dall’attore Gabriele Reboni.
Cuore dell’opera, quella che è nota ai più come la leggenda del Grande Inquisitore è un racconto allegorico, ambientato a Siviglia ai tempi della Santa Inquisizione, che Ivàn Karamàzov espone al fratello Aleksej; Ivan ammette l’idea di Dio, ma non accetta il mondo malvagio da lui creato, quindi, convinto di poter essere autosufficiente nella sua immoralità, si scaglia contro la triste realtà narrando questo poema. A quindici secoli dalla sua morte, Cristo, mai menzionato per nome, ma sempre come “Lui”, fa ritorno sulla terra; benché il popolo lo riconosca e lo acclami come salvatore, egli viene subito incarcerato per ordine del Grande Inquisitore, il quale, dopo essersi recato nelle segrete a comunicargli la sua condanna a morte, gli rimprovera di avere seminato confusione, di aver voluto portare la libertà ad un popolo che è incapace di usufruirne, poiché un popolo felice non può essere libero, ma deve essere necessariamente sottoposto ad un potere autoritario che decida per esso. Il Grande Inquisitore, convinto che i ribelli non possano assaporare la felicità, imputa a Cristo la colpa di non aver dato all’uomo i mezzi adeguati perché realizzi la libertà che egli stesso ha portato con il suo messaggio e che risulta insostenibile per la maggior parte degli uomini; egli gli spiega quanto sia necessaria un'autorità forte, quella da lui rappresentata, che richieda agli uomini obbedienza in modo che essi siano davvero felici. L’Inquisitore non è un eretico né un ateo: è portavoce della critica che Dostoevskij muove alla chiesa cattolica come contestazione contro ogni forma di potere che soffoca la libertà in cambio di una presunta felicità, promessa non lontana da quelle sottoscritte dai regimi totalitari del Novecento.
Le pagine di Dostoevskij danno vita ad una continua provocazione: l’autore parla di tutti noi, siamo noi coloro che hanno delegato la propria responsabilità agli altri poiché il peso della libertà è insopportabile. Le parole dell’Inquisitore risuonano quindi come la requisitoria di un anziano uomo di chiesa che ama Cristo e riconosce la debolezza degli uomini nel momento in cui non accettino di portare il peso della libertà, pur chiedendosi “che colpa hanno tutti gli altri, i deboli, se non hanno saputo sopportare quello che i forti hanno sopportato? Di che cosa è colpevole un'anima debole, se non ha la forza di accogliere doni così terribili?”. Quella che in un primo momento sembra essere una spietata accusa contro Cristo, è in realtà un elogio della sua persona: questo capolavoro letterario fa emergere infatti la profonda distanza tra la compassione cristiana, che, secondo l’etimologia del termine simpatia, implica la disponibilità e l’attitudine a soffrire con l’altro, e la mera pietà mostrata dall’Inquisitore. Questi conclude l'interrogatorio comunicando al condannato che la sua esecuzione avverrà l'indomani e che il popolo ne gioirà, attendendo poi una replica a quanto ha detto: a questo annuncio, Cristo si alza per dargli un bacio compassionevole che “gli brucia nel cuore, ma non gli fa cambiare idea” e rimane in silenzio: perché Cristo tace? Vogliamo immaginare che Dostoevskij abbia pensato ad un Cristo senza risposte? Di fatto lo scrittore ha descritto l’urgenza della corresponsabilità sociale verso ogni azione che mini all’armonia sociale, prefigurando l’epoca dei regimi totalitaristi che, togliendo la parola, privano la massa della sua libertà. Cristo non ha bisogno di giustificarsi a parole: le apparenti ragioni del Grande Inquisitore sono smentite dalla sola presenza di Cristo, il Verbo che parla da sé nel silenzio.
La relatrice ha posto l’accento sulla risonanza sociale de I fratelli Karamàzov: noi tutti non possiamo sottrarci alla responsabilità del male che avviene nel mondo, tutti ne siamo coattori e coautori, pertanto il silenzio umano di chi non si oppone ai grandi inquisitori è quello del veri peccatori. Proprio lo stesso Cristo, che in punto di morte invoca il Padre al grido di “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” senza ricevere alcuna risposta, è il vero custode del linguaggio che si oppone alla potente arte e arma retorica dell’Inquisitore. È quasi paradossale che questi faccia l’apologia del silenzio parlando, mentre Cristo, tacendo, rinnega tutti coloro che parlano: il suo silenzio ci induce a trovare la nostra voce, a portare rispetto verso il grande mistero che anima e caratterizza l’uomo e che dovrebbe portare tutti noi ad una modesta, umana parola. Come il profeta Elia che sente una sottile voce di silenzio, il mormorio di una brezza leggera (1Re 19,12), presenza misteriosa che spinge le volontà al bene, anche noi dovremmo imparare a stare soli con noi stessi per scoprire il dono del silenzio come condizione per recuperare la nostra umanità e prepararci all’incontro con le voci altrui.