«È una metafora efficace perché il sistema finanziario sta al costo dell’economia come il sangue sta al tessuto corporeo». Ha scelto un’immagine forte Mauro Magatti, sociologo dell’ateneo e direttore del Centre for the Anthropology of Religion and Cultural Change (Arc), per il suo saggio L’infarto dell’economia mondiale, appena pubblicato da Vita e Pensiero. «All’interno di questa immagine - spiega - il sangue è la finanza e Wall Street, il luogo dove è scoppiata la crisi finanziaria, è chiaramente il cuore del sistema economico. È un modo per rendere comprensibile qualcosa che rischia di essere di difficile comprensione a chi non ha un’idea precisa di come funzioni il sistema finanziario».
Su Twitter le hanno rilanciato la provocazione: “E se fosse ictus?” Pensa ci sia speranza per una guarigione della società e quindi dell’economia? La metafora dell’infarto ci permette di fare delle osservazioni su quello che sta accadendo. L’infarto è provocato da un malfunzionamento dell’organo, il cuore, e dall’altra parte dipende dagli stili di vita che facilitano l’insorgere del problema. I governi in questi anni hanno fermato l’infarto intervenendo sul funzionamento del cuore ma non sullo stile di vita, sulla gestione dell’impatto psicologico della crisi finanziaria. Smarrimento e perdita di futuro da una parte; dall’altra desiderio di tornare al “prima” aspettando una ripresa che non arriva. La risposta giusta però è la terza: non saremo più quelli di prima e forse l’infarto ci consente di riscoprire delle dimensioni e criticare dei comportamenti che avevamo prima di questo evento.
È l’occasione positiva che scaturisce dalla crisi? Sì, tutte le grandi crisi hanno una lezione, anche questa ne offre una da apprendere. L’«infarto» ci spinge a riflettere su cosa lo ha determinato e su come cambiare i sistemi economici sociali per evitare in futuro esiti dello stesso tipo.
Secondo gli ultimi dati la vulnerabilità economica delle famiglie è cresciuta del 17 per cento negli ultimi 3 anni. Le famiglie in grado di far quadrare il bilancio anche a fronte di eventi come la perdita del lavoro, sono appena il 5,5%; il rimanente 94,5% è a rischio. Quanto è vulnerabile la nostra società, al di là del mero punto di vista economico? Porrei innanzitutto attenzione sulla questione “vulnerabilità” in assoluto, perché in quanto essere umani siamo tutti vulnerabili. Possiamo ammalarci, possiamo morire, siamo vulnerabili di fronte ad alcuni eventi naturali. Fa parte della condizione umana. Vivere in società aiuta a proteggersi e a vivere meglio e ad affrontare questo condizione di vulnerabilità, non solo materialmente. Quindi l’assenza di vulnerabilità è impossibile.
Qual è allora il problema? Non è l’essere vulnerabili, ma è la distribuzione e la gestione sociale della vulnerabilità, cioè il sentirsi abbandonati nella propria fragilità e sapere che alcuni si mettono a riparo dai rischi scaricandoli sugli altri mentre altri sono esposti senza nessuna protezione sociale. Questo è uno degli aspetti più negativi che la crisi di questi ultimi anni ci rivela.
Nel libro cita i dati dell’Oms secondo cui il trend della sindrome depressiva sarà in costante aumento nei prossimi vent’anni: come si lega questo dato alla crisi economica? È un semplice effetto? La depressione è una malattia sociale che si è radicata al di là della crisi. Sicuramente ha aggravato il fenomeno, come nei casi di suicidio degli imprenditori, ma la depressione non è un prodotto della crisi perché la crisi stessa è espressione di un modello di crescita economica che si è fatto prendere dalla hybris della potenza tecnica. Questo modello provoca un senso di depressione perché ci rende continuamente inadeguati rispetto a quello che il sistema ci chiede.
Nel libro spiega come la crisi del 2008 segni l’inizio di una seconda globalizzazione, perché chiude una fase espansiva e costringe a un ripensamento della concezione e dei mezzi della crescita. Dobbiamo abbandonare il capitalismo tecno-nichilista, che poggia le basi su una concezione dell’uomo come “macchina-desiderante”, mai appagata. Verso quale modello economico dovremmo andare? Nella storia ci sono sempre continuità e discontinuità: si tratta di cambiare degli equilibri, di spostare degli accenti, di modificare degli assetti. La crisi ha interrotto la fase di espansione sia da un punto di vista economico che politico e quella fase, compresa tra il 1989 al 2008, è da considerarsi conclusa. È come se nella prima globalizzazione fossimo entrati in un oceano sospinti da una forte corrente che andava nella stessa direzione; adesso, dopo la tempesta provocata dalla crisi, ci ritroviamo in mezzo all’oceano della globalizzazione e non c’è più un’unica corrente che spinge. La crescita economica del futuro sarà quindi legata alle capacità delle singole imprese e delle singole comunità di definire una rotta e trovare un modo di muoversi in questo mare, con una propria capacità di produzione di valore.
È un suggerimento a puntare sulle risorse umane? Vale per la singola impresa, vale per un territorio e vale per un Paese: la seconda globalizzazione, essendo calata dal vento della deregulation metterà in evidenza la capacità di “mettersi in relazione con”, cioè l’avere qualcosa da offrire che ci renda interessanti all’interno di una dinamica mondiale: questo vuol dire che invece che mettere al centro il consumo bisogna investire nella ricerca, nella formazione, nella qualità, nelle infrastrutture, nell’integrazione sociale. Questa è la chiave per poter navigare in futuro.
In queste pagine affronta spesso anche il tema della libertà. La libertà è un portato di un processo storico di lungo periodo, che ha a che fare con il senso dell’autonomia personale, si associa alla democrazia, al benessere, al mercato. È la possibilità di agire e poter decidere rispetto alla possibilità di azione di ogni essere umano. La nostra società ha fatto molti passi in avanti in questo senso, ma la libertà, oltre a essere un principio positivo, può essere causa di problemi. Bisogna imparare a farne buon uso perché non esistiamo a prescindere dagli altri, dall’ambiente, dalle domande di senso della condizione della nostra libertà.
In questo pamphlet affronta il tema della crisi all’interno del sistema economico mondiale. Restringendo il campo al nostro Paese, secondo lei l’Italia è a rischio infarto? L’Italia è stata un Paese marginale che si è ritrovato all’interno di un movimento espansivo e nel momento dell’infarto si è accorta di non aver investito su di sé e quindi, terminata la corrente, rischia di affondare. L’immagine dell’infarto, che richiama il senso dell’eccesso, non è associabile all’Italia perché la condizione del nostro Paese è piuttosto dovuta a un ritardo storico, non più camuffabile.
Questo ritardo dell’Italia come è contestualizzabile rispetto al sistema Europa? Il fatto che l’Europa sia arrivata alla crisi finanziaria con l’euro, cioè con una moneta unica senza un sistema politico, ha fatto esplodere le contraddizioni dell’Europa: Paesi deboli, come l’Italia, si sono trovati in difficoltà rispetto alla crisi finanziaria e sulla disciplina dell’euro. È un nodo molto complicato.