Buenos Aires è un crocevia culturale e antropologico, dove si incontrano e si scontrano progresso e povertà, prevaricazioni e privilegi. La storia di questa metropoli è caratterizzata anche da profonde crisi economiche che ne hanno mostrato contraddizioni e finzioni, offrendo, però, anche interessanti stimoli di riflessione critica, soprattutto a coloro che vi sono nati e cresciuti. Tra questi spicca Rafael Spregelburd, scrittore, attore e regista argentino, nato a Buenos Aires nel 1970 e vincitore di numerosi e prestigiosi premi letterari. Artista poliedrico e spiazzante, di natura tipicamente intellettuale, Spregelburd è teorico della sua arte e creatore di spettacoli propri in mancanza di testi in grado di esprimere la sua visione del mondo.
Attento osservatore della crisi globale del 2011, non si è lasciato scoraggiare dallo sconforto generale, ma, convinto che le crisi appartengano ad un ciclo di corsi e ricorsi storici, ha colto l’occasione per discutere di temi e problemi annosi. Ispirandosi all’Eptalogia di Hieronymus Bosch, Spregelburd ha tradotto in chiave post-moderna i sette peccati capitali, affermando: «Ho scritto queste opere come se avessi perduto io stesso il vocabolario della modernità. Quindi si produce per me il fenomeno cercato: lo straniamento. Sono anche opere profondamente morali e, come Bosch, mi sono preoccupato di dar loro un titolo».
Declinando ai tempi nostri lussuria, invidia, superbia, avarizia, accidia, gola e ira, Spregelburd ha coniato la sua eptalogia post-moderna, composta da L’inappetenza, La stravaganza, La modestia, La stupidità e ancora Il panico, La paranoia, La cocciutaggine. Pur trattandosi di testi molto diversi tra loro, sia per durata che per complessità della trama, tutti costituiscono una sorta di malata rappresentazione della realtà, dove l'accento sembra cadere più sulla rappresentazione e sui suoi artificiosi intrecci che sulla realtà stessa. È infatti il gioco arguto sui meccanismi ad attirare l'attenzione, come se proprio i meccanismi riuscissero a spiegare un mondo assolutamente inspiegabile, confuso, probabilmente "vero", ma che a noi appare solo "verosimile" e, perciò, sospetto e incerto. Allora, in soccorso di chi ha bisogno di una bussola, ecco non la certezza di una storia, ma la sua esplosione abnorme e degenerata, come in una telenovela (che duri venti minuti come le prime due pièces della Eptalogia o trenta ore come in Bizarra), con una pletora di personaggi reali o virtuali, ciascuno portatore di una storia più individualista che individuale, ciascuno aggrappato come può ad una zattera della Medusa troppo stretta per contenere tutte le opzioni del verosimile.
A parlare de La modestia di Rafael Spregelburd – in scena dal 13 al 17 febbraio al Teatro Sociale di Brescia – è stato il professor Dante Liano, docente di Letterature ispano-americane presso l’Università Cattolica, ospite del settimo appuntamento di Letteratura&Letterature, insieme all’attrice Loradena De Luca, giovedì 6 dicembre nell’Aula Magna Tovini.
La modestia è una commedia degli equivoci che, in una successione di scene ascrivibili al genere dell’assurdo, porta in scena la dialettica e i confini del male, intrecciando due racconti, in cui i protagonisti sono gli stessi, anche se tutte le loro caratteristiche variano di volta in volta. La modestia è quindi un peccato che nasce dal volere essere un po’ meno di quello che si è; potrebbe sembrare paradossale, ma quella che solitamente è intesa come una nobile virtù diviene un peccato in quanto ostacola l’espressione totale della propria personalità. Nell’opera La modestia si possono rintracciare elementi che ricorrono spesso nelle opere di Spregelburd, in primis la destrutturazione del concetto di tempo teatrale: non si rispetta più alcuna canonica scansione degli eventi e lo spettatore dovrebbe essere così divertito da non accorgersi più dello scorrere del tempo (come in Bizarra, un'opera di trenta ore in venti puntate, una vera e propria "teatronovela" che riecheggia le strutture narrative di una soap opera).
L’autore non destruttura solo il tempo, bensì anche i personaggi, le cui molteplici identità mutano al cambiare delle scene. Concependo il teatro come indagine della realtà attraverso l’apparente nonsense, Spregelburd ne recupera la dimensione sociale, anche attraverso frequenti allusioni alla situazione politica contemporanea, tematizzando la fine della modernità e l’avvento della post-modernità con i suoi nuovi valori. Se la modernità era il trionfo della dialettica, intesa come un cammino lineare verso il futuro che si caratterizza per l’indagine sul presente, in America Latina la post-modernità è arrivata improvvisamente negli anni Cinquanta, quando dalla rivoluzione meccanica si è passati a quella comunicativa e tecnologica. Partendo dal presupposto che la libertà e la vita in sé sono e restano valori universali, Spregelburd si chiede se il nuovo sia effettivamente sinonimo di migliore, constatando e denunciando il divario abissale che esiste tra i diversi strati sociali nella sua terra natale. “Tutti gli esseri umani nascono liberi, sono ugualmente dotati di coscienza e hanno lo stesso diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità”: questa è la promessa della modernità, ma non per tutti è stata compiuta. Prova ne sono le condizioni di vita della maggior parte degli abitanti dell’America Latina che vivono il fallimento della modernità, subendone gli effetti più drammatici; così, in un mondo estetizzante, dove il trionfo dell’edonismo segna la morte dello spirito dialettico, l’individuo postmoderno si ritrova frammentato ad espiare i peccati del suo tempo.