di Katia Morello *
“Welcome to India” diceva imponente la scritta all’aeroporto di New Dehli e preannunciava già la grande ospitalità che avrei ricevuto, insieme alle mie inseparabili compagne Maria e Francesca, durante le tre settimane successive. La metropoli si concedeva fugace ai miei occhi dal finestrino rotto di un taxista indiano, che nel suo inglese mal parlato presentava le bellezze della città. Il Lotus Temple, i palazzi del potere, il fascino dell’India Gate si univano in una calda e umida domenica di luglio allo sguardo intraprendente e il sorriso triste di una bambina dai capelli neri, che sfidando il traffico pericoloso cercava di vendere un altro dei suoi fiori. Ecco l’India, con le sue contraddizioni apriva le porte a noi che “scalze” ci avvicinavamo ai suoi misteri.
L’organizzazione non governativa Bala Vikasa ci ospitava non come occidentali straniere ma come parte di una grande famiglia. Per descrivere il lavoro che l’organizzazione compie in questa zona sperduta dell’India mi vengono in mente le parole di Paolo VI nella Popolorum progressio: «La solidarietà mondiale, sempre più efficiente, deve consentire a tutti i popoli di divenire essi stessi gli artefici del loro destino». Vi ritrovo lo spirito che anima l’azione di Bala Vikasa: un progetto di sviluppo che si focalizza sulla persona umana, che pone al centro il suo essere, i suoi problemi e tenta di risolverli non dall’alto con risposte già “preconfezionate”, ma stimolando le potenzialità di ciascuno ad attivarsi per il Bene comune.
Il lavoro che svolge attraverso la costruzione di pozzi, gli impianti di purificazione dell’acqua, i programmi per le donne, i bambini e le vedove è mirato a rendere la persona, e con questa l’intera comunità, la vera protagonista dello sviluppo. “Help the people to help themselves” recita il motto dell’organizzazione: dare gli strumenti e le conoscenze per poi renderli autonomi e capaci di portare avanti da soli la loro crescita.
“Community driven development” era, appunto, il titolo del corso, al quale ho avuto il piacere di partecipare. Un gruppo di rappresentanti di diverse organizzazioni non governative del Sud est asiatico insieme per discutere di sviluppo, per apprendere, per scambiare opinioni ed esperienze. Lo spaesamento iniziale derivava dal ritenere i loro discorsi lontani dalla mia quotidianità, ma la gioia finale di capire di essere parte di un progetto comune compensava tutto. Lavorare con persone provenienti dal Bangladesh, dall’Afganistan, dal Nepal, dallo Sri-Lanka e, ovviamente, dall’India mi ha permesso di incontrare nuove culture, di aprire un dialogo produttivo e di creare nuove amicizie.
Durante le settimane successive ho avuto modo di entrare in contatto con una realtà che difficilmente si può ben descrivere, come altrettanto difficile è esprimere le emozioni provate mentre un esercito di bambini ti avvolge in un abbraccio che distrugge le barriere linguistiche e culturali, mentre le donne avvolte da colori sfavillanti mi iniziavano ai loro canti e immergevano nelle loro danze. La gentilezza e la semplicità di un’accoglienza che mai avevo ricevuto prima in vita mia.
Probabilmente noi che «viviamo nel mondo del consumo che basta a sé stesso, che non ha bisogno di ieri e di domani» - come ha scritto Luciano Manicardi nell’articolo “Futuro interiore” sulla Rivista del clero italiano edita da Vita e Pensiero - non riusciamo a capire che gli occhi di una donna colmi di speranza, gli occhi di un bambino che sogna, gli occhi di un villaggio che chiede semplicemente dell’acqua potabile ci stanno guardando e con tutta la loro forza ci chiedono di non essere ignorati.
* 24 anni, di Ispica (Rg), secondo anno del corso di laurea specialistica in Politiche europee e internazionali, facoltà di Scienze politiche, sede di Milano - collegio Paolo VI