di Simone Tagliapietra *
Mi capita spesso di ripensare a Shokuru, a Gilbert, a Maria. Mi basta socchiudere gli occhi per rivedere i loro volti, le loro espressioni. Mi capita di ripensare anche agli interminabili canti che per tutta la notte si levavano dalla foresta, naturale tempio del Bwali, il rito di iniziazione della tribù Lega. Talvolta, nel silenzio della sera, mi ritorna in mente il ritmo inquietante di quei tamburi, uniti alle grida degli iniziati. Anche se per certi aspetti l’esperienza del Congo è ancora molto viva dentro di me, in alcuni momenti mi appare improvvisamente distante, quasi come se fosse avvenuta in un passato lontanissimo, indietro, nella storia. Questo perché quello nella foresta del Congo non è un viaggio ordinario, di luogo in luogo, ma un vero viaggio nel tempo.
Dopo aver fatto scalo in Etiopia e in Rwanda sono arrivato, al fianco della mia compagna d’avventura Elena Arezzo, all’aeroporto di Bujumbura in un caldo pomeriggio di fine luglio. È qui in Burundi che è cominciato il vero viaggio, quello in jeep verso Kamituga, un villaggio situato nel cuore della foresta tropicale, nella martoriata regione nord-orientale del Sud-Kivu; la zona più difficile di quello che già in sé è uno dei Paesi più problematici dell’Africa: la Repubblica Democratica del Congo.
Dopo i primi due giorni passati in viaggio tra Uvira e Bukavu, ultimo centro prima di addentrarsi nella foresta, abbiamo imboccato la Route Nationale n. 2, quel sentiero in terra battuta che si inerpica sulle montagne dove oggi si nascondono i guerriglieri May-May, i ribelli e i soldati rwandesi. Una incredibile e confusa concentrazione di soldati, protagonisti dei tanti massacri di cui questa terra è stata testimone negli ultimi anni e che oggi vivono grazie ai continui attacchi ai convogli in transito sulla strada, oppure grazie alle incursioni nei piccoli e numerosi villaggi isolati.
Risalire quella strada è stato veramente come compiere un viaggio indietro nel tempo. Più il Land Cruiser macinava chilometri, addentrandosi nella foresta, e più si faceva forte l’impressione di tornare alle origini, su su fino al neolitico: capanne di paglia, donne che trasportano enormi ciotole d’argilla in testa, uomini armati di rudimentali machete alla ricerca di legna da ardere e nient’altro intorno se non l’infinità della foresta. C’era solo da augurarsi di non avere problemi con la jeep. Cosa che a noi, ahimè, è successa poche ore prima del calar del sole, mettendoci in una situazione dalla quale solamente un convoglio delle Nazioni Unite, che casualmente si trovava a transitare sulla strada, ha potuto tirarci fuori dandoci un passaggio sino al villaggio più vicino (4 ore dopo) dove abbiamo bussato alla porta della chiesa per trovare una sistemazione di fortuna per passare la notte.
Solo al quarto giorno di viaggio siamo giunti a destinazione. Il villaggio di Kamituga si è sin da subito presentato nella sua cruda e semplice realtà: strade fangose e dissestate collegano tra loro capanne in legno, vecchie fatiscenti case in muratura adibite a boutique e, di tanto in tanto, i resti delle maestose costruzioni belghe sono segni tangibili di un’epoca ormai lontana. Nel nostro soggiorno a Kamituga abbiamo avuto modo di parlare molto con la gente semplice, imparando a conoscere non solo le problematiche della vita quotidiana, ma anche alcuni tratti della loro mentalità. L’elemento che ha subito attirato il mio interesse, e che in seguito si è confermato come punto centrale di molte delle questioni aperte riguardanti questo popolo, è stato lo scoprire quale fosse la loro concezione del tempo.
Il tempo: un elemento così centrale per l’Occidente, che invece in quest’angolo di mondo pare non avere alcuna importanza. In Congo, anche per via delle oggettive condizioni tecnologico-infrastrutturali, sembra scorrere più lento. “Pole-pole” è l’espressione dialettale che si sente ripetere costantemente dalla gente: “piano-piano”… Ma questa concezione del tempo, oltre che rallentamento, implica anche mancanza di proiezione nel futuro. Qui si vive alla giornata, senza pensare a cosa potrebbe succedere domani e senza progettare nulla per il futuro. E qui sta la radice più profonda dei problemi di sottosviluppo di questo popolo, che troppo spesso sembra vivere in attesa della venuta dei più disparati aiuti umanitari.
Entrando nel cuore della realtà, secondo l’invito emerso dalle celebrazioni per i 90 anni della Cattolica, abbiamo avuto modo di liberarci di molti di quei preconcetti che una certa dialettica pseudo-umanitaria diffonde in Occidente. Guardando ai dati di realtà ci siamo resi conto di come troppo spesso molti degli aiuti portati dalla comunità internazionale, sia attraverso le Ong sia attraverso le Nazioni Unite, non giovino affatto a uno sviluppo realmente sostenibile della situazione socio-economica locale ma siano invece modi diversi per creare un legame di dipendenza, celando in questo senso una sorta di subdolo neo-colonialismo che certamente non fa l’interesse della povera gente. Ho visto con i miei occhi, per esempio, le modalità con cui vengono distribuiti in modo indiscriminato gli aiuti alimentari del World Food Program: arrivano i camion, e per quattro mesi vengono distribuiti beni alimentari sufficienti al sostentamento di ciascuna famiglia del villaggio. Il risultato? La gente ha abbandonato i campi, non vedendo il motivo di continuare a lavorare dato che qualcun altro aveva pensato al loro sostentamento. Peccato che nel giro di poche settimane il programma quadrimestrale d’aiuto termina, lasciando la popolazione in una situazione peggiore rispetto a prima, considerando i danni generati dall’abbandono delle terre coltivate.
Un’esperienza nel cuore della realtà, dunque, che mi ha lasciato in eredità due grandi lezioni. La prima lezione è quella della responsabilità: solo attraverso progetti di cooperazione inclusivi, volti a responsabilizzare direttamente la popolazione locale, è possibile dare un vero aiuto a questa gente. La seconda lezione è quella della centralità dell’educazione: qualsiasi processo di sviluppo non può che partire da qui, dalla testa delle nuove generazioni, che chiedono di avere gli strumenti per prepararsi, in un futuro nemmeno troppo lontano, a prendere in mano le redini di un Paese oggi ancora allo sbando. Non nascondo che mi risulta quasi impossibile vedere delle prospettive di sviluppo reali e sostenibili per questa terra martoriata, ma mi rincuora pensare che forse sia davvero solo puntando all’impossibile che si possa raggiungere il possibile.
* 22 anni di Feltre (Bl), laureato in Scienze politiche e delle relazioni internazionali e iscritto al secondo anno di laurea magistrale in Politiche per la cooperazione internazionale allo sviluppo - Collegio Augustinianum