di Elena De Marco *
Su tutti i libri di storia il Congo è citato con riferimento alla guerra. Ma della guerra a Mambasa è rimasta solo la paura. L’intensità della mia avventura in terra d’Africa continua ad accompagnarmi. Mi ri-racconto l’esperienza dell’estate scorsa ogni giorno e i nuovi particolari e le nuove riflessioni potrebbero non esaurirsi mai. Il nostro viaggio di due giorni in jeep per raggiungere la Mission Catholique de Mambasa è stato tanto lungo e lento quanto affascinante. Su strade sterrate e dissestate ci chiedevamo cos’avremmo fatto una volta arrivati a destinazione, ma i quesiti sono evaporati quando abbiamo conosciuto la città e la missione.
È stato chiaro fin dall’inizio che avremmo dovuto “lavorare” con e sui bambini: alla nostra prima richiesta di giocare a calcio con loro ci han risposto che prima avremmo dovuto pagare! Attoniti e ammutoliti ci guardiamo: è che noi siamo due bianchi tra tanti (Wazungu) che arrivano dalla loro spensierata ricchezza e che pensano già di poter giocare con loro a pallone! Questi ragazzini ci dicono: «Sciocco bianco, non vedi che non ho scarpe, né vestiti, né cibo? Pensi che dovrei ringraziarti perché vuoi giocare a pallone con me?». Abbiamo lottato ogni giorno per poter conquistare la fiducia dei piccoli africani che hanno condiviso con noi pomeriggi di canzoni, balletti divertenti, giochi scalmanati, risate e corse infinite sotto il sole che pareva non stancarli mai. Che vergogna scoprirci distrutti dopo mezz’ora di corsa e vedere loro così energici senza aver ancora messo qualcosa sotto i denti alle 4 di pomeriggio!
Eh sì… la maggior parte della gente di Mambasa mangia una volta al giorno, la sera. Le donne camminano per km per potersi procurare acqua potabile e cibo, che trasporteranno sul loro capo, magari con il figlioletto legato alla schiena. Ho visto bambini dormire con il visino schiacciato sul dorso della mamma e con le gambe divaricate a causa delle strette stoffe che li arpionano alle madri. Ho visto donne stanche, ma sorridenti e pronte al saluto, perché qui “habari mama!” (come va donna?) risuona in continuo lungo le strade. Non ho visto bambini piangere, in Congo non c’è niente per cui fare i capricci. Niente videogames, né robots all’ultima moda: qui ci sono la terra, un pallone, una vecchia ruota di bicicletta. Prati vivi su cui correre, alberi sui quali arrampicarsi alla ricerca matta di un frutto che possa alleviare la fame.
I bambini che sono con noi tutti i giorni, potrebbero sembrare orfani: passano la loro giornata alla missione e solo il buio li richiama alla dimora. O meglio al “palais”. Loro lo chiamano così il tetto di paglia sotto il quale dormono e le mura di pali e fango li circondano. L’attenzione e l’interesse di questi bambini per imparare il nuovo è così elevata che per qualche istante ho sognato di poter insegnare loro tutto ciò che di più bello esiste.
I sogni sono stati bruscamente interrotti dall’esperienza dell’ospedale, dove oltre ad aver rimbiancato le pareti di un fatiscente e squallido reparto pediatria, mi sono ritrovata a fare l’interprete per il cardiologo che era venuto con noi a Mambasa per dare la possibilità alla gente di fare una vera visita al cuore. Bastano poche ore per capire che qui la malasanità non esiste, perché è proprio la sanità a mancare. Quasi tutti i pazienti sono affetti da patologie mai diagnosticate prima a causa della mancanza di attrezzature adeguate o dell’incapacità di medici che trovano come unica spinta al lavoro di dottore un guadagno superiore a quello del congolese medio. A poco è servito diagnosticare esattamente ai pazienti il loro male: nel 90% dei casi non hanno soldi per comprarsi le medicine e in altrettanti casi i farmaci più efficaci qui nemmeno ci arrivano.
Nonostante le varie ragioni di sconforto e i momenti in cui ho vissuto un forte senso di impotenza ho avuto di che gioire tra questa gente. Ho scoperto che qualcuno che ha voglia di migliorare per aiutare il suo popolo c’è, qualcuno che vuole imparare a fare meglio, che vuole lavorare duro. Il numero di ragazzi che hanno la possibilità di andare a scuola, e nei casi più fortunati all’università, aumenta giorno dopo giorno. È con loro che può avvenire un cambiamento sostanziale, poiché c’è un’attitudine pigra e rassegnata in questa gente che andrebbe poco a poco sradicata grazie all’apporto di tecnica, di nuove conoscenze, di organizzazione del lavoro.
La domanda che ho sentito più spesso dopo il mio ritorno è “Cosa facevi là?”. Quel che ho tentato di spiegare a chi me l’ha chiesto è che più che fare, mi è stato fatto molto. Non è solo l’aver imbiancato una parete, non è l’aver potuto rendermi utile come traduttrice durante le visite in ospedale, non è l’aver riordinato dei magazzini, ma è l’aver respirato odore di terra, l’aver conosciuto un cielo nuovo che non è mai grigio, ma sempre di colori vivi. È l’aver ricevuto strette di mano così vitali da farmi pensare che al mondo c’è ancora qualcuno che non ha nulla da nascondere perché ha la fortuna di non possedere “nulla”.
Ogni giorno riaffiorano alla mia mente i sorrisi dei watoto (bambini) che mi hanno ricordato la gioia di un tuffo sull’erba e che mi hanno insegnato l’amore per il presente, perché chi lo conosce meglio è proprio chi non ha futuro.
* 22 anni, di Reggio Emilia, terzo anno di corso in Scienze linguistiche, facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere, sede di Milano