di Giuseppe Vanella *
La parola Africa, nella nostra lingua, non è solo un luogo geografico; è un concetto, un’inclinazione, uno stato d’animo. Costruirci sopra un discorso non è quindi mai esente dalla retorica, intesa come l’ampollosità di certi discorsi fine a se stessi che non hanno cambiato di una virgola la storia del mondo. Trovarsi in Africa, seppur per un evento fortuito, è tutta un’altra cosa.
Io ero lì, al centro esatto di quel continente dai mille volti, catapultato in un universo a se stante, non pienamente descrivibile a parole, perché, si sa, un’immagine può molto di più. E io penso di non averne mai viste così tante di immagini, così diverse da quelle che la mia mente aveva elaborato in vent’anni. Se quindi volete capire cosa significa vivere tre settimane in Uganda, semplicemente comprate un biglietto e andateci, perché io non sono in grado di descrivere i colori, gli odori di questo paese, né le complicate e poliedriche emozioni che rendono così misteriosi i volti delle persone che ci vivono. Posso solo provare a parlare di quanto quelle immagini hanno segnato la mia vita, cominciando da quella professionale.
Ho scelto di fare il medico, e questa scelta mi è già costata di dover affrontare l’imbuto dello sbarramento e i primi due anni di uno studio che non è tra i più semplici del panorama universitario. Eppure provate a ricercare tra i costosissimi libri fitti di nozioni, e non ne troverete alcuno che insegni come si “cura” una persona. Ammesso che curare significhi solo esaminare, diagnosticare e mettere in atto una terapia adeguata, già varrebbe la pena seguire un qualsiasi phisician africano nel suo ward round, per il semplice motivo che la carenza di strumenti diagnostici d’avanguardia (penso di aver visto una sola Tac in tutto il paese e nessuna risonanza magnetica) ha reso la loro semeiotica, la loro capacità di differenziare e interpretare i sintomi, realmente patognomica, cosicché raramente il paziente esce da un ambulatorio senza avere la propria diagnosi.
Ma curare è molto di più. Il primo giorno di tirocinio in ospedale, il dottor Micheal ci chiese: «Quanti pazienti HIV+ avete conosciuto?». E dopo la nostra risposta disse: «Beh, quando ripartirete ne avrete visti a centinaia». Bene, ora provate a chiedere a un qualsiasi trattato di spiegarvi come dire a un uomo che è sieropositivo, specialmente in un continente in cui l’Aids è stato, e in alcuni casi continua a essere, uno stigma, un presagio di morte. Quell’uomo, tra le centinaia di persone che ho visto, rimarrà per sempre nella mia testa, a ricordarmi quanto può diventare fragile il più forte degli esseri umani, messo di fronte a un evento del genere.
Ovviamente non è solo la poca medicina che ancora mastico ad aver beneficiato di questa esperienza. Provate a pensare cosa significa incamminarsi la mattina verso l’ospedale, percorrendo strade polverose, magari un po’ assonnati per via del gallo che alle cinque vi ha buttato giù dal letto, ed essere travolti da un urlo. Mzungu… Mzungu. Solo dopo abbiamo scoperto che questa parola significa «uomo bianco», ma avremmo potuto intuirlo dal fatto che quell’urlo richiamava ogni volta decine di bambini festosi, che accorrevano anche solo per stringerti la mano, la prima volta con gli occhi bassi, poi di giorno in giorno con sempre meno pudore. Non crediate che per me fosse più semplice stringere la mano di persone che mostravano una gratitudine che, in cuor mio, generava una sola domanda: «Ma si rendono conto di che cosa il nostro mondo ha fatto al loro? Si rendono conto che loro pagano la benzina quanto noi, pur pagando il cibo dieci volte meno?». Erano tra i momenti più belli e più tristi delle nostre giornate perché, aldilà del gesto affettuoso e rincuorante, non potevi fare a meno di pensare che la settimana precedente avevi il patema d’animo di comprare o meno un paio di jeans.
Così ora conservo questi volti, queste strette di mano, sapendo di dovere un grazie a chi mi ha permesso di essere lì, a chi lì mi ha accolto e fatto sentire un figlio, un fratello, un compagno. Torno in Italia, torno a studiare, torno a vivere in una società che ha senza dubbio più igiene, più tecnologia, perché no, a volte anche più cultura. Ma penso che il prezzo che stiamo pagando per tutto ciò sia la sterilità di un chirurgo che accuratamente cauterizza le ferite della nostra coscienza, le ferite che ognuno di noi si è provocato semplicemente osservando il mondo per quello che è. Mi auguro che questa esperienza mi aiuti a riaprirle ogni giorno, certo che ugualmente farà chi era lì con me. Avendo fiducia nell’aforisma di Jack Folla che dice: «Un uomo solo che guarda il muro è un uomo solo. Ma due uomini che guardano il muro è il principio di un'evasione».
* 20 anni, di Modica (Rg), iscritto al terzo anno della facoltà di Medicina e Chirurgia "Agostino Gemelli, collegiale del Nuovo Joanneum della sede di Roma