di Francesca Mastrovito *
Il mal d'Africa non è solo un'invenzione: ho scoperto a mie spese che esiste davvero. Sarà lo stile di vita tranquillo, sarà la genuinità dei rapporti, la quiete della città di Stellenbosch, o solo il fatto di veder pascolare insieme vitelli e struzzi: ci si innamora molto facilmente, del Sud Africa. L'11 giugno sono partita per frequentare la summer school di un mese organizzata dalla Stellenbosch University, a circa 40km da Città del Capo. Non sapevo molto, prima di andare via: solo che sarei stata immersa in una realtà diversa dalla mia, a contatto con studenti provenienti da ogni parte del mondo, e che avrei seguito dei corsi imperniati totalmente sul paese sudafricano sotto ogni punto di vista: sociale, economico, storico e così via. Se anche avessi avuto altissime aspettative prima di lasciare l'Italia, Stellenbosch le avrebbe superate tutte, e di gran lunga. Cosa avrebbe potuto esserci di così speciale, lì? Non riesco a trovare una risposta, ma posso affermare che quel qualcosa di diverso, di intenso, di meraviglioso esiste.
Ho incontrato ragazzi di molte nazionalità: oltre a un nutrito gruppo di ragazzi statunitensi, tra i miei compagni di corso vi erano due ragazzi di Hong Kong, un ragazzo olandese, una decina di studenti sudafricani dell’università locale e una ventina di ragazzi provenienti dal Gabon che facevano parte di un programma più intenso volto all'apprendimento dell'inglese, in modo da formare giovani insegnanti di lingua. Nonostante le diverse nazionalità e il fin troppo gonfio orgoglio americano, tutti sono riusciti ad adattarsi con facilità allo stile di vita sudafricano; è stata una sorpresa scoprire che è davvero possibile vivere con semplicità, senza dover correre ed affannarsi senza un motivo apparente o davvero importante. Si può ben immaginare il trauma del ritorno: in sole 18 ore passare dalle detached houses, dai giardini, dal quinto cielo azzurro più bello del mondo (non so sinceramente secondo quale classifica, ma i sudafricani ne vanno piuttosto fieri...a giusta ragione), dalla calma e dalla tranquillità della piccola Stellenbosch al caos e al grigiore di Milano è stato davvero terribile.
La summer school, che chiamare summer era difficile, dal momento che siamo passati dall'autunno all'inverno, mi ha dato la possibilità di approfondire la storia e più in generale la vita della giovane democrazia sudafricana a 360 gradi, alternando lezioni in aula molto diverse dalle nostre: molto più aperte al dialogo, al confronto e al dibattito con escursioni e field trips nei luoghi d'interesse inerenti alle lezioni. Mi ha colpito quanto la loro storia sia recente. Così breve che a stento si può relegare nel passato: la loro storia è adesso. Le ferite dell'apartheid non sono affatto rimarginate, sebbene con il cambio generazionale si intravedano prospettive più incoraggianti di integrazione: esempio lampante è stato il dibattito scatenatosi in classe durante la prima settimana di corso, dove il professore (di pelle nera) affermava insistentemente il fatto che nulla fosse cambiato dall'apartheid a oggi, che la discriminazione fosse ancora viva e lampante, che l'immagine della sorridente Raimbow Nation fosse solo fittizia. I ragazzi sudafricani, per la maggior parte bianchi, hanno contestato la visione pessimistica del professore: per loro l'integrazione c'è, e parte dalle sfere più basse come il gruppo di studio, la squadra di calcio o la semplice appartenenza a una comitiva.
La presenza silenziosa dei postumi della politica di segregazione razziale si nota anche soltanto camminando per strada: l'università di Stellenbosch era in quel periodo un'università accessibile solamente ai bianchi e tuttora l'abbondante 90% degli studenti è di “razza” bianca. Prova evidente è il fatto che la maggior parte dei corsi è professata ancora in Afrikaans, la lingua dei boeri. Molto difficilmente si incontrano persone nere o colorate in veste di docente, così come, al contrario, sono pochissimi i bianchi che svolgono un lavoro da cameriere, lavapiatti e via dicendo. Questa è una delle svariate conseguenze negative dell'apartheid, in quanto anche l'educazione era stata designata diversamente tra i vari gruppi razziali. Ma lo stesso governo si sta muovendo verso un discorso di integrazione e parità dei diritti, sempre seguendo la scia tracciata per la prima volta da Nelson Mandela: l'evento dei mondiali di calcio 2010, per quanto possa essere contestabile sotto il profilo economico, è servito a creare un senso di orgoglio e appartenenza comune alla nazione, indifferentemente dal colore della pelle e dalla provenienza sociale.
A confermarmi questi segnali incoraggianti sono stati anche i ragazzi sudafricani con cui ho avuto la fortuna di legare e di vivere a stretto contatto. Da loro ho imparato che ci si può sentire a casa anche a diecimila chilometri di distanza dalla vera casa, che ci si può sentire in famiglia anche in un gruppo di persone conosciute da pochi minuti, che ci si può divertire in maniera molto semplice, passando una serata insieme, ballando il Sokkie o arrostendo un po' di carne durante il tradizionale braai. Ho imparato che non è necessario passare mezz'ora davanti allo specchio ogni mattina, che non sempre pregiudizi e stereotipi hanno ragione, che si può andare in giro scalzi senza il timore di essere additati come matti: immaginate il mio stupore appena arrivata, vedendo i ragazzi andare in giro a lezione o anche sull'asfalto a piedi nudi; durante l'ultima settimana, anch'io ho rinunciato alle scarpe. Così come io ho accolto la loro cultura, anche i miei compagni senza alcun timore si sono dimostrati disponibili ad accogliermi e incuriositi hanno ascoltato i miei racconti di vita quotidiana e non in Italia; per tenere alto il nome della nostra nazione, non potevo non preparare una cena tipica italiana: credo che in quel momento i ragazzi si siano dimostrati ancor più favorevoli a un discorso di scambio culturale.
Solo adesso riesco a capire quanto siano veritiere le parole di tutti coloro che sottolineano l'importanza di non rinchiudersi nel proprio microcosmo e di essere pronti ad essere cittadini del mondo: non si tratta di molteplici prospettive, ma di un solo lungo percorso da costruire insieme, mettendo al centro la propria esperienza e la propria cultura al servizio del prossimo, affinché l'idea piuttosto utopica di un mondo migliore e unito non sia soltanto un miraggio.
* 20 anni, da Martina Franca (Ta), primo anno di corso in Scienze linguistiche - relazioni internazionali, sede di Milano