di Cecilia Marani *
«Le mani libere, in tasca il giusto, nel cuore molto»: sono parole della canzone che Lorenzo Jovanotti ha dedicato all’Africa nell’ultimo cd. Sono state anche la colonna sonora della mia esperienza di volontariato estivo in Etiopia. Adesso che sono tornata, con insistenza mi si ripropone questa domanda: «Che cosa resta di questo viaggio?». Ma soprattutto: «Avrò la capacità di lasciare che le esperienze vissute, gli incontri fatti non si perdano con lo scorrere del tempo ma al contrario acquistino un valore autentico per la mia vita?».
Ma per rispondere occorre andare con ordine. Dal 30 luglio al 20 agosto 2011 ho partecipato al Work Charity Program promosso dal Centro d’Ateneo per la solidarietà internazionale (Cesi). All’aeroporto della capitale etiope ad attendere me e Teresa, la mia insostituibile compagna di viaggio, c’era suor Hirut, la nostra referente ma, soprattutto, il nostro “paio di occhiali” per leggere la realtà etiope. È lei che ci ha introdotto “in punta di piedi” nelle storie e nelle vite di tante persone.
Il viaggio alla scoperta dell’Etiopia ha avuto inizio con la graduale conoscenza di Addis Abeba, per poi continuare con la visita alle varie missioni della congregazione della Divina Provvidenza per l’infanzia abbandonata, sparse, da nord a sud, nella zona più interna dell’altopiano etiope. Giornate intense, segnate da viaggi a stretto contatto con una natura incontaminata, verso luoghi spesso tagliati fuori dalle moderne forme di comunicazione, in cui i suoni della natura prendevano il posto dei rumori di cellulari e computer. I giochi e i canti con i bambini degli asili, la firma come testimoni di un contratto per la costruzione di un nuovo pozzo fino all’aiuto nella distribuzione degli sponsor delle adozioni a distanza: sono solo alcune delle attività che hanno movimentato le nostre giornate.
Sarebbe però riduttivo limitarsi a raccontare la quotidianità di quei giorni senza capire cosa di quest’esperienza porto con me. Mi restano i volti ma soprattutto gli occhi delle persone incontrate, così profondi e spesso come velati di malinconia: occhi che t’interrogano e sembrano chiederti ragione di tante ingiustizie. E poi la rinnovata consapevolezza della bellezza e dell’importanza del valore della vita e la convinzione che valga sempre la pena di essere vissuta nonostante tutto. Come dice ancora Jovanotti nella canzone dedicata all’Africa: «La bella vita abbastanza bella da essere vita, la bella vita abbastanza vita da essere bella».
L’Africa e il suo modo di stare dentro al tempo mi ha fatto riflettere sull’uso spesso da schiavi e non da uomini liberi che noi ne facciamo. Mi ha insegnato a non fuggire dal presente, riponendo tutte le mie attenzioni nel futuro, ma a esserne protagonista e artefice. La cosa che però mi ha colpito di più resta l’impressione di un tempo depurato da tutte le (spesso) inutili preoccupazioni che ci affliggono, consegnato alla tessitura delle relazioni umane e della solidarietà.
Non posso che concludere completando a modo mio le parole della canzone “La Bella Vita” di Jovanotti: «Le mani libere, pronte a mettersi a disposizione; in tasca il giusto, perché solo di quello c’è realmente bisogno; nel cuore molto, per saper rispondere alla chiamata della vita». È l’atteggiamento propositivo e di speranza che quest’esperienza, nonostante le difficoltà, le domande rimaste senza risposta e le fatiche mi ha insegnato ad avere nei confronti dell’esistenza.
* Cecilia Marani, 23 anni, di Imola (Bo), quinto anno di corso del corso di laurea magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza, sede di Milano - collegio Marianum