di Francesca Giovannenze *
L’unicità di una foto sta nella singolare armonia di linee, colori, chiaro-scuri, sfumature, dettagli più o meno visibili, oppure nella particolare disposizione d’animo dell’occhio di chi la guarda? Oppure ancora risiede tutto in quel momento - unico, critico, inaspettato - dell’incontro tra l’osservatore e il mondo che è contenuto in quello scatto? Io una risposta non l’ho trovata, ma credo che il modo migliore di raccontare un’esperienza sia prestare i propri occhi, sfogliare insieme le fotografie di un percorso che non è destinato a finire, ma a crescere, a prolungarsi, metro dopo metro, scatto dopo scatto… Ecco i miei occhi, guardate la mia Africa.
Click: la terra è indiscutibilmente rossa qua, sulla strada che porta a casa nostra, Green Hill, Cape Coast, Central Region, Ghana. Una capretta mi fissa mentre strappa fili d’erba dal bordo della strada, con la sua aria di animale domestico, come per fare gli onori di casa. Arriva l’ambulanza del Baobab Medical Centre, c’è Prince, un’infermiere ghanese, che ci dà il benvenuto. Sorride, con la bocca, con gli occhi, con tutto. Akwaaba – Welcome.
Click: al Central Regional Hospital di Cape Coast lavora un dottore cileno, Salvador. È qui da un anno ma ancora non parla né inglese né fante. Parla spagnolo, ma ci capiamo. Ci dice che nella vita per essere felici i soldi non bastano, ci vuole l’amore. Love. Ma le parole che abbiamo in comune sono troppo poche e allora prende un foglio di carta con il timbro dell’ospedale che serve per la richiesta degli esami di laboratorio e disegna una bilancia; sui due piatti scrive: money-love. The balance of Health. Salvador dice che ogni mattina, quando entriamo in ambulatorio, dobbiamo mettere nel nostro camice due cose: in una tasca le nostre conoscenze, nell’altra la passione e l’amore. Suda tanto, combatte contro le zanzare, gesticola con i pazienti. Enjoy your life.
Click: al Baobab Medical Centre, nell’emergency room, c’è Williams. È un infermiere ghanese, avrà più o meno 30 anni. Sta togliendo una scheggia di legno dalla tempia di un bambino. Ha una mascherina da chirurgo, e anche la mano ferma e precisa di un chirurgo. La scheggia è venuta fuori. Ben fatto. Non ci sono più pazienti oggi, e ci fermiamo a parlare. Williams ha i capelli corti e duri, da africano. Le labbra grandi che ridono di tutto e ringraziano Dio per ogni cosa, perché tutto viene da lui. Ha il viso magro e gli occhi intelligenti, curiosi, vivi. Parliamo di politica, sanità, istruzione. Per studiare medicina in Ghana, nell’Università pubblica, si pagano 5.000 euro all’anno. Più o meno quasi due anni di stipendio per un infermiere. Qualche conto non torna. E non ci sono borse di studio, il Governo non ne dà. Penso a quando ogni tanto mi lamento perché sono stanca di studiare. Mi parla di quanto è difficile gestire un paziente quando non ci sono abbastanza mezzi, quando non puoi fare un emocromo di routine perché costa troppo o un’ecografia perché la macchina non funziona. «In Ghana la medicina si fa con la testa, perché non hai altro: devi pensare e poi pensare e poi pensare… e poi sperare che vada bene!». E sorride. Sono le 5 pm, arrivano le zanzare. Tutti a casa.
Click: siamo seduti in un tro-tro, una specie di pulmino con una porta scorrevole. Qua di macchine private ce ne sono poche e tutti viaggiano in trotro o in taxi, in 5, 6, 10, 15 persone. Dal finestrino vedo una scritta sul vetro di un taxi giallo che sembra uscito da un film americano degli anni ’70: Jesus is the bread of my life. Qui Dio è ovunque: nelle macchine, sulle insegne dei negozi, sulla bocca di chi ti incontra per la strada senza neanche conoscerti: “God bless you”. È sulla parete di un negozio Vodafone, su un asse di legno dipinto di rosso: Jesus connects.
Click: è tutto indescrivibilmente vicino qui. È proprio questione di misure, di spazi, di tempi, di vita e non vita che ti stringono da vicino. Lo dico perché mi trovo nella sala d’aspetto dell’ambulatorio a Saldpont. Sono seduta vicino a una donna che sta allattando il suo bambino, che mi fissa. Vengono dal nord. Sua madre ha un vestito bianco con tanti, piccoli ricami blu e il viso con i segni dell’appartenenza alla propria tribù, linee armoniche e colorate che dalla fronte scendono sulla tempia e raggiungono la guancia. E canta. Tutti cantano, tutte le donne con i loro bambini in braccio, tutti gli uomini che aspettano il proprio turno. Non capisco quello che dicono, se non una parola: Amen-Eimen. Pregano, sono le 7.45 am in una sala d’attesa. E io sono lì tra loro. Vorrei sapere le parole.
Vorrei che questo foglio bianco non avesse margini per disegnare le mille immagini dell’Africa che si affacciano ogni giorno, meravigliosamente prepotenti, nei miei pensieri. Ma i margini ci sono, e allora voglio chiudere con una frase di J. Steinbeck: People don’t take trips, trips take people. Questo viaggio in Ghana ha costruito un pezzo di quella che sono. Perché adesso ogni giorno, quando esco di casa, mi guardo in tasca, controllo se ci ho messo tutto, come ha detto Salvador. Perché adesso posso dire di aver visto un’altra faccia della medicina: la faccia incerta di chi formula ipotesi diagnostiche senza sapere se avrà mai i mezzi per confermarle, di chi prescrive terapie empiriche confidando in Dio. E spero che questa faccia nera mi accompagni sempre, ogni volta che sarò tentata di formulare una diagnosi troppo semplice, ogni volta che starò per prescrivere un esame senza sapere bene il perché, ogni volta che rischierò di affidarmi alla tecnica prima che alla ragione. Medaasi Ghana - Thank you Ghana.
* 23 anni, di Leonessa (Ri), corso di laurea in Medicina e Chirurgia, 5° anno di corso, Collegio San Luca-Barelli, sede di Roma