di Gianmarco Anzellotti *
Mzungu, è il termine “dialettale” con cui i locali, soprattutto bambini, usano apostrofare l'uomo bianco, il diverso, colui che proviene da una dimensione che il bambino africano, ugandese, vede come mitica, lontana. Con questa piccola certezza ho deciso di provare il concorso per l'Uganda.
Proprio così, l'Uganda! Se qualcuno non sapesse dove sia questo stato, spesso associato a Africa e Paese in via di sviluppo, stia tranquillo: io, lungi dal sapere dove fosse l'accento della parola Kampàla, prima di andarci dell'Uganda sapevo solo che era in nel continente africano.
Allora guardandomi un po' intorno, leggendo su Wikipedia ho scoperto che quasi metà del suo territorio è costituito dal lago Vittoria (il secondo lago di acqua dolce del mondo per estensione), che in essa si trova la sorgente del Nilo (o meglio di una sua parte), che è tagliata dall'equatore e che si trova tutta a circa 1000 metri di altitudine, (motivo per cui sono tornato in Italia con la tosse...dall'Equatore) ma anche che lì la malaria è endemica e che la Tubercolosi e l'Hiv sono problemi seri.
Arriviamo a Kampala, io e la mia compagna d'avventura Giordana, con qualche ora di ritardo (dodici), colpa di un guasto tecnico dell'aereo che dall'Etiopia avrebbe dovuto portarci in Uganda (ordinaria amministrazione); siamo accolti da una sister (un'infermiera) che ci conduce verso gli alloggi dei visitors dell'ospedale, all'ultimo piano dello stesso salvo poi accorgersi che non vi era posto per me e dirottarmi verso l'ala degli alloggi degli ugandesi.
Ma insomma, cosa sono andato a fare in Uganda? E soprattutto, dove? con chi? Insieme a Giordana, a quattro nostre splendide colleghe lombarde (Carmen, Lotti, Eli e Mari) e, per un po' di tempo, insieme ad alcuni medici italiani (i dottori Coggiola e Rosso e poi Guido e Giovanna) abbiamo alloggiato presso il Benedict Medical Center (Bmc), un centro medico costruito dall'Emmaus Foundation, diretta dal vulcanico padre comboniano Giovanni Scalabrini (universalmente noto come Father John) che dal 1964 dedica la propria vita ad aiutare la popolazione ugandese e soprattutto i bambini ugandesi ad avere un futuro migliore e ha costruito un network di scuole e chiese fino al Bmc.
Il Benedict Medical Center è una struttura ospedaliera con circa 40 posti letto per degenze, divisi in due reparti per uomini e donne, una sala operatoria, una sala parto, un laboratorio analisi, un gabinetto radiologico, un ambulatorio aperto H24 e soprattutto delle tariffe bassissime.
In Uganda, infatti, la sanità non è pubblica (salvo rari casi che non possono assorbire evidentemente tutta la richiesta) e quando hai 7-8 figli a carico (praticamente tutti) e abiti in una città che non riesce a dare lavoro a tutti (ricorda qualcosa?), anche comprare le medicine per il raffreddore dei tuoi figli o solamente pagare il prezzo di una visita diventa complicato, figuriamoci sottoporsi a un “banale” cesareo. Proprio per coprire questo vuoto, il Bmc eroga le prestazioni chiedendo al paziente un contributo “effordable”, anche per un ugandese, il più delle volte.
La mia giornata tipo cominciava alle 7, quasi all'alba, con una tonificante doccia fredda (l'acqua calda non c'è) per poi fare colazione con una tazza di latte, del buon caffè solubile locale (che loro preferiscono a quello italiano), biscotti e ogni tanto, una fetta di ananas e le buonissime Lady Finger Banana (non c'entrano niente con la frutta che conoscete, niente!). Dopo la colazione, in camera per prepararsi e poi via per il giro visite nei due reparti, non prima però della consueta e pittoresca preghiera delle 8.
Finito il giro visite, se erano previste delle operazioni era possibile assistere alle stesse o ci si catapultava in ambulatorio o, come lo chiamano lì, nell'OutPatient Department (Opd). Lì si aveva a che fare con patologie poco note in Italia come la malaria (onnipresente) o la schistosomiasi o con le più “banali” gastriti o infezioni delle vie aeree.
Finita la mattina ci si dirigeva a casa di padre John per assaporare un delizioso pranzetto italian style ma anche per sfruttare l'occasione conviviale per un confronto tra il comboniano, che non ha mancato di raccontarci alcune delle sue innumerevoli esperienze al limite, e noi, mzungu alle prime armi.
Dopo esserci ristorati, tornavamo al Bmc dove avevamo la possibilità di continuare l'attività assistenziale in Opd o sala operatoria oppure dedicarci al condividere esperienze con i locali, tra di noi o improvvisare una passeggiata per tentare di assaporare cosa significhi davvero l'Uganda. Alla sera, di nuovo cena da padre John, non prima della quotidiana recita del Rosario insieme ai bambini presenti nella missione e poi tutti a letto.
Cosa mi è rimasto di questa esperienza? Sicuramente una crescita dal punto di vista professionale in quanto ho avuto la possibilità di conoscere davvero cosa significhi “medicina di frontiera” e soprattutto come sia ancora possibile aiutare un malato quando hai solo le tue mani e qualche guanto.
La crescita maggiore, però, penso di averla avuta dal punto di vista umano, ho riscoperto il significato della parola unione, comunità e soprattutto della parola gratitudine: i sorrisi dei bambini che ho visto lì sono quanto di più appagante possa esserci, per un medico ma anche e soprattutto per una persona.
Porterò con me quello che ho visto e che ho imparato in Uganda per il resto della mia vita, nella speranza, un giorno, di poter vedere qualcuno, in Italia, in America, in Uganda, su Marte, sorridermi, come ho visto sorridere quei bimbi.
* 25 anni, di Atri (Te), sesto anno del corso di laurea in Medicina e chirurgia, facoltà di Medicina e chirurgia, sede di Roma