di Chiara Beolchi *
Quando si atterra a Sao Paulo si ha la sensazione che la città non finisca mai. Una megalopoli immensa, nella quale non si riescono a determinare i confini. L’ho sperimentato nel febbraio scorso quando sono arrivata in Brasile per un interscambio di sei mesi. Sono sempre stata attratta da esperienze di scambio culturale perché sono convinta che abbracciare un’altra cultura rappresenti un modo per conoscersi meglio. Dopo un viaggio di solo un mese in Africa, a Nairobi, dove ho partecipato a un progetto di volontariato, ho avuto voglia di scoprire altre realtà. L’esperienza in Africa è stata molto intensa ma non profonda come quella in Brasile, che mi ha permesso di immergermi per sei mesi in un’altra cultura.
Dopo due mesi in Brasile ho cominciato a parlare il portoghese e, come un bambino che compiendo i primi passi diventa padrone del mondo che lo circonda, interagendo con le persone sono diventata parte della società brasiliana. Ho frequentato La ”Pontificia Universidade Catolica” (Puc) per un semestre. Inizialmente mi era tutto estraneo, dalle lezioni che sono partecipative e molto dinamiche, alla stessa un’università molto aperta. I miei corsi richiedevano un impegno quotidiano fatto di seminari, letture, approfondimenti e ho potuto conoscere e confrontarmi con un metodo educativo completamente diverso da quello cui siamo abituati in Italia, ottenendo tuttavia dei buoni risultati.
Sao Paulo è una città gigantesca che inizialmente può spaventare per diversi motivi, primo fra tutti il messaggio mediatico di insicurezza che viene costantemente comunicato e genera un pregiudizio che può condizionare la scelta iniziale di realizzare un intercambio in Brasile. E poi noi italiani non siamo abituati a spazi così vasti e alla forte disuguaglianza sociale che lì possiamo trovarci di fronte in qualsiasi momento, in ogni strada. Ho avuto la possibilità di partecipare a uno stage in un istituto per bambini con “difficoltà” che mi ha dato l’opportunità di osservare direttamente il lavoro degli educatori in quella difficile realtà, e immergermi quindi in una quotidianità dominata dal disagio sociale, di cui un noto esempio sono le favelas.
La nostra società molto spesso è chiusa rispetto all’incontro con l’altro e il Brasile mi ha colpita perché, anche se ci sono delle ingiustizie sociali e delle situazioni di povertà allarmanti, emerge tra la gente una serenità e una solidarietà non facilmente riscontrabili nel nostro paese. Dopo i primi due mesi quell’ambiente mi ha trasformata e molte sensazioni che mi sembravano estranee adesso mi sono familiari e ora che mi trovo Italia talvolta mi sento un po’ “straniera” nel mio paese. Ma vorrei precisare: non sono una delle tante persone che non vedono l’ora di lasciare l’Italia. La mia esperienza universitaria in Brasile mi ha dato l’opportunità di confrontare differenti metodi educativi che mi hanno fatto apprezzare le diversità e le eccellenze. Mi ha dato la sensazione di poter appartenere a un’altra cultura. Per questo un Overseas o un Erasmus non sono una perdita di tempo, ma un’occasione. E io non mi stancherò mai di conoscere e viaggiare, perché scopro sempre di più una parte di me. Il mondo è un libro, e quelli che non viaggiano ne leggono solo una pagina.
* Chiara Beolchi, 23 anni di Milano, corso di laurea di Scienze dei fenomeni sociali e dei processi organizzativi, facoltà di Sociologia, Milano