di Andrea G.G. Parasiliti *
Scrivere di una esperienza propria equivale, in un certo senso, a riviverla. E molte esperienze si vivono talvolta per potersele ricordare. I ricordi, secondo il mio conterraneo Gesualdo Bufalino, sono degli animali pericolosi che solo addomestica chi li racconta. Perché ciò gli toglie il veleno. Per questo ho deciso di spedire questa mia “cartolina” da New Orleans.
Non è una comune città americana. Ci troviamo nel Sud, lungo il Mississipi e il Golfo del Messico. Si parla di una città dai tratti francesi, con tanto di French Quarter, Bourbon Street e Frenchman Street. Ma nessuno ormai parla francese. Arrivati all’aereoporto Louis Armstrong in piena notte, io e Alessandro troviamo Bill, un simpaticissimo signore sulla sessantina che ci aspettava per portarci all’interno del campus. L’Università di New Orleans (Uno) è giù per Elysian Fields (avete capito bene, è l’esatta traduzione dei francesi Champs Èlyséès). Giunti di fronte ai Dorms, al nostro Pontchartrain Hall North, provai solo sgomento e un profondo senso di pentimento. «Ho sbagliato, pensai, la prossima volta resto a Milano…» D’altra parte il vero errore è arrivare alle 2 di notte in un posto sconosciuto.
Infatti l’indomani mattina, smarrito nella portineria del collegio, chiedevo informazioni a qualunque studente riuscissi a fermare, per farmi spiegare come raggiungere l’Educational Center, l’edificio delle lezioni. Finché uno strano ragazzo saudita di Riyadh mi disse di seguirlo. Dopo un po’ capii che sarebbe stato un mio compagno di corso e sarebbe divenuto un amico fraterno.
Si chiama Feezee. Avevo dormito quattro ore e non avevo potuto fare colazione. Mi offrì i suoi biscotti e da sconosciuti dividemmo il suo pasto mattutino. In seguito Feezee mi avrebbe detto sempre così: «No problem, man, we are brothers… Just ask, I can help you.»
New Orleans è un posto di persone, non di individui. È un’America socialista, fatta di lavoro e di musica. Temevo, in vero, prima di partire. Temevo di non trovare un ambiente adatto alle mie esigenze, un po’ più particolari visto i problemi che ho nella deambulazione. Erravo. Essere uno studente regolare all’interno di una Università americana significa vivere in un contesto completamente inimmaginabile già per una realtà come la nostra Cattolica, figuriamoci per la Sicilia! Studiare poi in un contesto internazionale significa inoltre vivere in un clima di cooperazione. Nessuno è a casa propria lì e tutti siamo uguali. Nessuno è «più uguale degli altri». E questo vale anche per gli autoctoni. Per la popolazione locale, nera in maggior parte. Che con tanta fatica ha dovuto aiutarsi per ricostruire la città dopo il 2005, dopo l’uragano Katrina.
C’è un monumento nel campus, una specie di enorme medaglione di bronzo credo, dedicate alle vittime dell’uragano. Me l’ha mostrato Cris, il mio amico Cris Williams, durante il mio secondo giorno. L’ho incontrato per strada, gli ho chiesto una informazione e lui mi ha accompagnato al Bookstore. Poi mi ha condotto lì, davanti al monumento. Si è seduto e ha iniziato a raccontare per me, come Enea a Didone, la distruzione della sua città.
Inutile parlare del campus. Come la maggior parte delle università americane, è una sorta di mega villaggio turistico, un paradiso per lo studente con verde, scoiattoli, palestre, piscine e tanto di lago. La Uno infatti lascia sboccare il suo campus sul Lakeshore, uno dei maggiori laghi della Louisiana, dove alcuni studenti vanno a pescare a fine lezione. In classe si andava tutti i giorni dal lunedì al venerdì dalle nove alle tre del pomeriggio. Più compiti per casa. Tutti i giorni, più rincaro in vista del week-end. «Please, Robin, not so much!» supplicavamo la nostra insegnante, che, con spirito pragmatico ci rispondeva: «I’m sorry, guys… It’s an intensive program».
Taccio della città in sé, della nostra Down Town… Dico solo che fra marzo e aprile hanno luogo tutti i maggiori festival musicali dell’anno. Dal Mardì Gras al French Quarter Festival, dal Frenchman Festival al Jazz Fest… In effetti il giorno a New Orleans è come la notte. Il jazz è sempre vivo, un jazz fatto di brass, da ballare, travolgente… Un jazz alla Ella & Louis, ma sempre nuovo e sempre diverso, come solo il jazz sa essere.
E come scordare i compagni di vita, tutti quegli amici sparsi nel mondo ormai, che ti fanno capire che siamo tutti così diversi ma in realtà così uomini e fratelli. Parlo in particolare di amici venezuelani e arabi, sauditi per lo più. Come dimenticare i tre Mohamed, i due Abduallah, Fahad e Ghazi.
Il tornare porta con sé due sensazioni ambivalenti. Da un lato si è ricchi, di una propria ricchezza di studi, di incontri e di esperienze. Dall’altro ora a Milano mi sembra di essere, come direbbe ancora il “mio” Bufalino, un re in esilio, invecchiato a un tavolo di caffè. Ma sono solo in attesa di ripartire.
* 22 anni, di Ragusa, laureato alla triennale in Lettere moderne curriculum Analisi dei testi ed editoria, studente del primo anno della laurea magistrale in Filologia moderna, curriculum in editoria