di Leonardo Cataneo *
Roma, 7 agosto 2011, ore 12. con qualche ora di ritardo partiamo per il Ghana, ci sono io, c’è Francesca, la mia compagna di viaggio, e c’è un bagaglio di emozioni che non riesco a decifrare, non capisco: so che non è un viaggio come un altro, non so se sono all’altezza di questa avventura.
Accra, 8/8/2011 non so nemmeno l’ora, atterro, c’è confusione qui, mi sento completamente stordito, l’aria è umida, l’aeroporto è affollato, per le strade c’è un rumore fortissimo, un vai e vieni assolutamente straordinario, la gente corre, urla canta, balla, compra, vende. Mi sento straniero, potrò mai entrare in questa bolgia? Riuscirò mai a essere d’aiuto in così tanto disordine?
Passano i primissimi giorni, ho al mio polso un braccialetto con rappresentata una bandiera ghanese, la mia mano stringe quella di Prince, un infermiere mio coetaneo del posto, è lui che mi accompagna in ambulatorio. Elizabeth mi abbraccia “Welcome-Akwaaba”, Victoria mi sorride, una signora del villaggio mi invita a mangiare il Kenkey, cammino per il villaggio: “ebony-white man” urlano i bimbi, io li saluto loro ridono, sembrano felicissimi, suono i bonghi, gioco a football con altri ragazzi del villaggio. Sono passati pochi giorni, ma io ci sono. È stato semplicissimo entrare in quella che prima era una bolgia incontrollabile, la mia avventura Africana è iniziata.
Entrato ormai nel ritmo di vita ghanese e del lavoro nel Baobab Medical Centre potevo finalmente essere utile. Sono stati straordinari l’esperienza, il lavoro, gli incontri, ma soprattutto l’insegnamento che l’Africa mi ha dato. Africa vuol dire povertà, fame, vuol dire scarsezza di norme igieniche e dei più elementari bisogni sanitari. Essere d’aiuto lì è stato per me molto semplice, diversamente da come pensavo i primi giorni: non è richiesta una conoscenza medica ultra-avanzata, la medicina lì non è molto complessa ed è legata soprattutto a quella grave diffusione di malattie contagiose che la scarsa igiene e il sovraffollamento dei villaggi favoriscono.
La cosa straordinaria che il mondo africano mi ha insegnato è che il più grande aiuto che la gente poteva ricevere da me non proveniva dal mio camice bianco o dal mio fonendo, ma la mia stessa presenza, una stretta di mano, un abbraccio, una chiacchierata o un sorriso dava alla povera gente una speranza, un sollievo nel sapere che non erano soli. Per tutta la mia permanenza in Ghana mi è sembrato quasi riecheggiasse costantemente al mio orecchio quella famosa frase di Giobbe Covatta assolutamente vera: “Basta poco che ce vo’!”. È dai gesti più semplici che trova conforto la gente che soffre.
Ho inoltre potuto notare che anche solo le attrezzature sanitarie basilari (come un elettrocardiografo o un Eco), non molto costose, spesso in surplus negli ospedali europei, possono essere di grande aiuto nel miglioramento della stato di salute della povera gente. L’Africa ha bisogno di sostegno economico e strumentale ma soprattutto umano. La gente ti saluta e ti ringrazia anche per la sola tua presenza “medaasi-thank you”: essere lì mi ha riempito l’animo di orgoglio e bontà. Potrei continuare con raccontare giorno per giorno, paziente per paziente, uomo per uomo la mia avventura, ma giuro non basterebbe un libro. Ogni giorno è vissuto lì in maniera estremamente intensa, ogni incontro è in grado di insegnarti qualcosa: come si soffre, come si vive, la magnificenza della fede di qualsiasi tipo esso sia, la convivialità, l’ospitalità e mille altri insegnamenti. Insomma sembrava di essere alla più importante scuola di vita.
Se la mia permanenza in Africa ha arricchito notevolmente la mia persona, è stata fondamentale anche nella mia crescita professionale insegnandomi come sia importante soprattutto la vicinanza d’animo alla gente che soffre. Spero che tutto questo io non lo perda mai, che mi accompagni per il resto della mia vita e professione. Mi sembra di sentire già il mal d’Africa.
* 25 anni, di San Severo (Fg), neolaureato in Medicina luglio 2011, sede di Roma (collegio San Damiano)