di Simone D'Avvocato *
Nella sinuosa ed esuberante terra di Panama, su una cordigliera senza tempo sospesa tra le nuvole, vive quasi incontaminata la comunità indigena degli Ngobe-Buglé. Se non fosse per qualche radiolina di prima generazione, unico tramite verso il mondo civilizzato, probabilmente la dimensione temporale sarebbe definita unicamente dall’alternarsi del giorno e della notte. Se si aggiunge l’assenza di corrente elettrica, rete fognaria e acquedotti, diventa facile immaginare il mondo incantato di uno dei sei ceppi indigeni dispersi sul territorio panamense.
Addentrarsi in questo mondo primordiale, una volta giunti nella provincia di Chiriquì, poteva risultare traumatico, soprattutto dopo aver passato i primi giorni nella dinamica e caotica Panama City al fianco dell’inesauribile don Hector, che mi ha calorosamente accolto e introdotto in quell’incredibile “frullatore” che è il suo paese. Per fortuna il fascino, della natura e della curiosità verso una realtà così lontana dall’immaginario comune, ha avuto facilmente sopravvento. Salire quelle montagne è stato un vero e proprio viaggio nel tempo. Più salivo, più indietro nel tempo mi sembrava di andare e tanto più la natura si faceva ammaliante. Il suo incanto induceva naturalmente alla meditazione e alla dilatazione dei sensi, permettendo di percepire inequivocabilmente l’essenza dell’unità. Senza esagerare, penso di non aver mai provato una sensazione di serenità e armonia così intenso.
In questo paradiso, ben distanziate tra loro, si incontrano le singolari capanne a forma di trullo degli indigeni, che si mimetizzano perfettamente con l’ambiente. Sono davvero adeguate al loro contesto, esteticamente parlando, ma di certo non funzionali alla vita di famiglie numerose. Osservando la situazione degli alloggi, si capisce come il loro problema principale sia la mancanza di programmazione, che probabilmente è ricollegabile proprio alla loro (non) percezione del tempo. Una prova lampante consiste nel fatto che non esiste la concezione del risparmio. Un’altra prova è l’agricoltura, prettamente di sussistenza nonostante la terra fertile sia l’unica risorsa abbondante.
Per questo motivo la fondazione Nuestra Senora del Camino, guidata dallo stravagante padre Adonai, porta avanti una serie di progetti che mirano, non tanto a fornire beni primari agli indigeni, quanto a renderli consapevoli della propria condizione e quindi a fornire loro degli strumenti per organizzarsi meglio, diventare autonomi e condurre una vita dignitosa. In pratica la fondazione si sostituisce allo Stato, evidentemente incapace, ponendo anche rimedio ai danni provocati da quest’ultimo. Infatti l’intervento statale - principalmente attraverso contributi erogati secondo criteri discutibili - di fatto si traduce in assistenzialismo. Il risultato è che invece di favorire l’emancipazione della comunità indigena attraverso interventi sussidiari e di sensibilizzazione, la si fa regredire incentivando fenomeni di parassitismo.
Grazie a uno di questi progetti ho potuto affiancare un gruppo di indigeni nella costruzione di una delle rare case di mattoni. È stata una opportunità unica per penetrare la loro natura discreta, diffidente e introversa. Del resto come biasimarli per un comportamento tale nei confronti di uno dei pochi bianchi che incontrano lungo la propria vita - soprattutto se si tiene conto del retaggio della colonizzazione spagnola - quando da noi, nel mondo civilizzato, lo straniero è ancora un alieno per molti? È stato sorprendente scoprire che la loro curiosità nei miei confronti si faceva ogni giorno più coraggiosa. È stato divertente rispondere alle loro domande, a volte davvero strambe. È stato davvero unico il rapporto di fiducia instaurato con un mondo così diverso, che mi ha permesso di vivere nella bellezza pura della semplicità.
I momenti più belli sono stati indubbiamente quelli condivisi con i bambini che incrociavo ogni giorno lungo il tragitto verso il cantiere. I loro sguardi incuriositi erano sempre pronti a trasformarsi in splendidi sorrisi al mio saluto, e il loro affetto faceva sorgere il sole ogni giorno, solo per me, su quelle montagne spesso inghiottite da fiumi di nuvole che ne modificavano continuamente la scenografia, conferendo una spettacolare dinamicità al paesaggio che sembrava necessaria a bilanciare la vita compassata dei sui abitanti. Tanti di loro mi si inchiodavano davanti per chiedere il nome, la provenienza, il motivo della mia visita, per fare una foto o per altre ragioni tra le più disparate, tutte utili a farmi sentire come loro, stesso frutto dell’amore di Dio. Grazie al loro dono ho compreso un concetto, fondamentale a mio modesto parere, che il poeta libanese Khalil Gibran esprimeva così: «E vi sono quelli che danno senza rimpianto né gioia e senza curarsi del merito. Attraverso le loro mani Dio parla e attraverso i loro occhi sorride alla terra».
* 25 anni, di Bari, secondo anno del corso di laurea specialistica in Economia, sede di Milano - collegio Augustinianum