Tre settimane a New York ti fanno guadagnare di default l’invidia di tutti. Parenti, colleghi. Sconosciuti. È un attimo e, mentre in un bar stai raccontando a un amico gli ultimi preparativi prima della partenza, ti accorgi che il tuo vicino di tavolo rovescerebbe volentieri tutto il suo caffè nero – molto nero - sulla tua camicia bianca di lavanderia. Un abracadabra, una parola magica. New York...
Abbiamo un cortometraggio in testa. A New York diventerà azione, voce, telecamera, suono, pellicola. Vita, insomma. Lo dovremo scrivere, girare, montare. Abbiamo tre settimane per farlo. Arrivati alla SVA (School of Visual Arts), nel cuore di NY, quello che spiazza non sono tanto i grattacieli, quanto il metodo americano, che ci mette subito tutti alla prova. Fare, fare, fare. Condividere, condividere, condividere. Conviverci non è così facile come potrebbe sembrare.
Noi, abituati alle nostre certezze, ai nostri manuali, alle nostre lezioni, ci sentiamo scalzati da questo modo di interagire: ognuno deve dire la sua, in un confronto continuo, che a volte ci sembra non avere un fine chiaro. Ma quando ci presentano alcuni studenti che diventeranno i nostri tutor, capiamo subito che abbiamo molto, molto da imparare. Il più “vecchio” ha 24 anni tutti hanno già con un’esperienza incredibile (alle spalle lavori per Universal, Paramount...); possono cambiare l’illuminazione a una stanza cinque volte di seguito, soltanto con un po’ di nastro adesivo (una specie di McGyver dell’audiovisivo), mentre noi, a bocca aperta, stiamo ancora combattendo per aprire la scatola delle pile.
Prima settimana. Scrivere, scrivere, scrivere, anche di notte, anche nei tavolini di un bar. Raccogliere idee, anche nel supermercato. Girare per Dumbo cercando il luogo giusto per l’inquadratura a cui non vuoi rinunciare, a rischio di far perdere tutti per strade quantomeno equivoche. E di non trovare un taxi. Finire tutti i biglietti della metro per andare al ponte di Brooklyn, praticamente ogni giorno, a qualsiasi ora. Meravigliarsi di quanti colori si vedano là sopra.
Seconda settimana. Scegliere gli attori. Provare. Provare. Provare e provare ancora, fino a che la scena non viene perfetta. Scoprire che generalmente la scena tende a non esserlo. Ascoltare così tante volte un dialogo da impararlo a memoria, fino a non poterlo più sentire. Non essere soddisfatti di se stessi e volersi migliorare. Essere pronti a rimettere in discussione tutto. Girare di nuovo in un giorno tutto quello che avevamo fatto in una settimana.
Terza settimana. Le ore di sonno iniziano a scarseggiare. Montiamo il nostro corto: l’audio ha problemi. Registriamo di nuovo e ci chiudiamo in sala montaggio. E ci facciamo buttare fuori praticamente tutti i giorni all’ora di chiusura, pregando per un minuto in più, come fossimo in un compito in classe al liceo.
Aver vissuto New York con tutte queste pressioni ce l’ha fatta vivere davvero. Una città bella e difficile, un oceano distante dalla nostra concezione di casa. Una città dove vogliono stare tutti ma che sembra essere di nessuno. Una città dove nessuno si stupisce di niente. Anzi, sì, forse della normalità.
A New York non hai vicini di casa che danno l’aspirapolvere a orari impensati della mattina, ma vicini di grattacielo iper cool che danno feste ancora più cool sul proprio roof, con la musica più giusta che ti abbia mai sentito.
A New York non puoi comprare semplicemente uno yogurt, perché la confezione piccola parte da un chilo. Tutto è più grande. Tutto è scintillante. Tutto è all’ultima moda.
New York fa a gara con se stessa per essere sempre più avanti, sempre più grande, sempre più New. Le limousine per la strada, che si sentono arrivare da un chilometro con i bassi sparati al massimo, i pancakes sempre più alti e soffici. Lo sciroppo d’acero sempre più dolce. I negozi, come un oceano, di cui non riesci a vedere la fine.
New York come in un film, dove entri da Tiffany per timbrare il cartellino del ci-sono-stato e ti trovi davanti 10 ragazze dell’Upper East Side, urlanti davanti all’anello di fidanzamento di una di loro.
New York vede le cose dall’alto. È sempre al top. È sempre in cima.
New York è la città delle luci, che ti abbagliano, anche in mezzo alla notte più scura. Quasi da dimenticare che più in alto di lei, c’è altro. Ci sono le stelle.
New York è il tempo e New York, il tempo, lo vuole possedere tutto. Lo ricorda anche il nome della sua piazza, Times Square. Ma il tempo non è mai abbastanza e allora New York è un paio di scarpe da ginnastica, una corsa continua. Come la prima immagine del nostro corto.
* Allieva del master in Scrittura e produzione per la fiction e per il cinema