di Francesco Leo *
Se dovessi pensare a un modo, anche originale, per descrivere la mia esperienza ugandese a Kampala, mi viene in mente subito il testo di una canzone che a stento conoscevo prima del viaggio e che poi ho avuto modo di ascoltare e riascoltare diverse volte, prima da solo, poi con la mia compagna di avventura, Elisa, e infine anche con le altre ragazze della missione di Padre John. "Fango" di Lorenzo Jovanotti descrive passo passo, strofa dopo strofa, tutta la mia esperienza africana e illustra con semplici immagini, come fossero flash di una reflex, i miei stati d’animo e le riflessioni di quel periodo indimenticabile. Un pezzo che ancora oggi ascolto nel buio della mia stanza, la sera, quando ripenso a quel cielo stellato che vedevo dalla mia stanzetta di Luzira.
Ripenso agli occhi dolci di quei bimbi che mi guardavano incuriositi e mi chiedevano un sorriso o un abbraccio. Alpha prendeva il solito biberon di latte la sera e, con l’aria di chi ha realizzato lo scopo della sua giornata e con immensa felicità, si accoccolava sul divano della cucina e lo sorseggiava in silenzio. Lui sì che era fortunato. Aveva tutto l’oro del mondo: aveva la sua mamma, non gli serviva altro. Accanto a lui altri bimbi meno fortunati in quella casa avrebbero tanto voluto conoscere la propria e sperimentare, almeno una volta, la sensazione di sentirsi unico al mondo e amato sopra ogni cosa. Ripensavo allora alla mia mamma e alla mia famiglia che era la prima volta, forse, che mi mancava veramente e realizzavo l’immensa fortuna che mi era capitata e mi sentivo ricco anche io solo al pensiero di casa.
Sono stato tre settimane a contatto con persone che mi vedevano diverso ma hanno saputo accogliermi come se fossi da sempre uno di loro. Mi sono sentito amato sin da subito da tutti, dall’autista, all’infermiera, al dottore, al bambino, al falegname, al paziente. Erano tutti pronti a regalarmi un sorriso o a scambiare una parola e mi hanno insegnato a fare lo stesso senza aver paura del giudizio altrui. Questo è stato il più bel souvenir che mi sia portato dai fantastici paesaggi africani: la consapevolezza che è inutile affannarsi a riempire la giornata con piaceri effimeri e ricercare false felicità o illudersi di poter comprare tutto o potersi procurare tutto nella vita, gioie comprese. È inutile sentirsi al centro di un mondo che in realtà è tutto un invenzione, un’apparenza.
Ho imparato, dai bambini con cui spesso, nel pomeriggio, mi intrattenevo, a condividere quel gran dono che è in ognuno di noi e che ci portiamo dentro sin dalla nascita, quell’amore che non si esaurisce mai, perché si ricarica dell’amore altrui e che è bello poter condividere con chi ci è vicino per riceverne dell’altro. A contatto coi medici del Bmc, l’ospedale in cui ho lavorato, ho sperimentato che guardare negli occhi una persona ammalata e regalarle un sorriso o pochi attimi di attenzione può essere molto più utile di qualunque farmaco o sterile prestazione medica e può arricchirci più di ogni altra lezione o libro.
Ho imparato a fondermi con il fango, con la natura e la sua immensa ricchezza e mi sono sentito forte ed eterno alle origini del fiume più suggestivo e pieno di storia della terra. Ho riscoperto l’importanza di ascoltare il mondo, di fermare il tempo e uscire dal flusso imperterrito di eventi che ci trasporta durante la giornata e, per un po’, fermarmi a riva a osservare tutto da fuori, a riflettere sui momenti più semplici e rivalutare le emozioni più scontate e i particolari più piacevoli che ti scaldano il cuore e che in un secondo possono illuminarti una giornata. Ho imparato che nel mondo c’è tutto ciò che serve per essere felici e che la felicità, quella vera, è ovunque attorno a noi ed è dentro di noi: è nel tramonto rosso che si vede dalla finestra di un ospedale, nel rumore di una cascata imponente nel silenzio di una savana, nella gioia di una mamma che tra atroci sofferenze vede venire alla luce il suo primogenito. Ho visto la felicità e, in cuor mio, l’ho raggiunta.
* 22 anni, studente del quarto anno di Medicina, sede di Roma