di Roberta Trotta *
Rosso come il sangue versato per l’indipendenza, giallo come le miniere d’oro di cui è ricco, verde come le sue floride foreste: il Ghana. Ma non è solo questo. È anche il dolce sorriso di un bambino, la sofferenza di un malato, il forte profumo di terra bagnata, l’abbraccio di nuovi amici, la paura di un bambino quando vede l’uomo bianco, i suoi occhi neri, il battito di un cuoricino in un pancione, una gomma bucata sulla via per Cape Coast, le guide spericolate e i viaggi in tro-tro, la messa gioiosa e colorata piena di canti e balli, le formiche sul viso di un paziente, le lunghe passeggiate sulla sabbia color avorio, il Banku, l’umidità, le acrobazie del pescatore Kofi per 5 GHC regalati, il Fanti e lo Shanti, il bagno nell'oceano, i vaccini e le vitamine, il degrado e la povertà, i bimbi nudi e scalzi, le case piccole di mattoni rossi, la prevenzione del colera, Grace e il suo attacco acuto d’asma, Grace che mi ringrazia solo perché il giorno prima le avevo tenuto la mano e le ero stata vicino, il suo abbraccio di donna forte come un leone, la malaria, il bambino con le zucchine che per la curiosità ci ha seguiti per tutto il villaggio, le continue proposte di matrimonio, le donne che prendono insieme le decisioni importanti, la pipì di un bambino durante la pesatura, la gioia immensa per una caramella ricevuta, la frattura scomposta esposta, le ulcere da decubito, l’Hiv, i gemellini su una stuoia bianca a terra in una stanza buia, le colline e le pianure, mai un monte…
Potrei continuare all’infinito. Sono talmente tante le cose che ho vissuto e imparato, le emozioni forti e indimenticabili che ho provato, che non basterebbe questo foglio né altri cento per scriverle. Ma non sarebbero nemmeno sufficienti e adatte le mie parole per far venire i brividi a chi legge, come invece è successo a me nel momento in cui le ho vissute.
Sono state giornate intense e piene. Negli ambulatori, in ospedale, sono stati giorni passati accanto ai pochi medici e operatori sanitari del luogo che instancabilmente e senza perdere la propria dedizione si mettono al servizio della comunità. Qui si fa la vera medicina, quella che usa le mani per capire, la medicina che palpa e che percuote, che osserva i segni del corpo, che ascolta prima di diagnosticare. Non si può fare altro qui, non ci sono i nostri sistemi diagnostici all'avanguardia, le nostre indagini di laboratorio ultraspecialistiche e ultradispendiose, il sistema sanitario è lontano, lontano dai villaggi e dalle persone. Si cerca, per quel che si può, di raggiungere i punti più distanti e fare prevenzione ed educazione sanitaria. Qui ci si adatta e non ci si arrende.
In Africa la gente muore per una puntura di zanzara o per una ferita infetta, perché non ha denaro a sufficienza per comprare un farmaco che potrebbe salvarla o perché il personale è insufficiente. Ma sarebbero tanti gli episodi da raccontare. Uno fra tutti: ospedale regionale di Cape Coast, ragazza di 23 anni, pelle e ossa letteralmente, paralizzata per una lesione del midollo. Avvicinandomi al suo letto un forte odore misto di feci e sangue mi ha colpito. Aveva ulcere da decubito su caviglie e una enorme del diametro di 20-25cm sul bacino. Si vedevano il rosso dei muscoli e il bianco delle ossa. Soffriva tantissimo, serrava i denti e stringeva gli occhi incavati per cercare di resistere al dolore, e quando questo diventava troppo forte emetteva qualche lamento, ma non imprecava, non gridava, né piangeva. Era debolissima, non riusciva a parlare né a mangiare. Due giorni dopo sono tornata lì. Volevo salutarla, portarle il mio conforto, un sorriso o una carezza (se potevano servirle a qualcosa). Il letto era vuoto. Mi sono sentita impotente e inadeguata, abituata alla moderna medicina dei miei libri.
Ma c'è una cosa che più di ogni altra ti colpisce quando arrivi in Africa e ti cambia: nonostante le mille difficoltà loro sono felici, contenti di quello che hanno. Ti trasmettono la gioia di vivere, di meravigliarsi e gioire per le piccole cose. E ti rendi conto che fino a ora sei vissuta in una società che non si accontenta e che bada al superfluo. Si può essere felici con molto meno. E non so quanti di noi resisterebbero nelle loro stesse condizioni.
Loro sono cordiali, danno quello che possono, abbracciano e trattano come fratelli e sorelle anche chi non ha il loro stesso colore. Mi hanno accolto come se fossi stata sempre lì e sono bastati pochi giorni per farmi sentire una di loro (il mio nome in fanti, il dialetto africano locale, è Cucuà Niamijé). Sono tante le storie che ci hanno raccontato, tante le idee che hanno sull'Europa e l'occidente, tanti i sogni per il loro futuro. E sono tante soprattutto le domande che ci hanno posto, curiosi di sapere come la pensavamo su molte cose e desiderosi di ascoltare le nostre storie. Spesso ci hanno chiesto: «Perché quando uno di noi viene nel vostro paese non viene accolto come facciamo noi con voi?», ma a questo non abbiamo saputo rispondere. Spero che questo sia solo l'inizio del mio rapporto con l'Africa, spero di poterci tornare per lavorare insieme a loro e non al posto loro, perché una buona medicina è quella che si adatta a cultura e tradizioni del posto e non quella che esporta il proprio modello.
* 25 anni, di Maratea (Pz), sesto anno del corso di laurea in Medicina e Chirurgia, sede di Roma - collegio Ker Maria