Non di solo utile vive l’azienda ma anche di bello e di buono. Può sembrare paradossale ma, nella grande trasformazione dell’industria 4.0, che qualcuno definisce già “quarta rivoluzione industriale”, tornano a farsi largo nelle aziende concetti che possono sembrare anacronistici o richiamare, addirittura, categorie filosofiche. Almeno in quelle realtà che accettano di affrontare la sfida della digitalizzazione che cambia le organizzazioni, cambia il lavoro e cambia il modo in cui le persone si collocano in entrambi.
La ricerca “La nuova borghesia produttiva” - condotta un paio d’anni fa da alcuni sociologi, coordinati dal professor Mauro Magatti, tra 2mila aziende manifatturiere italiane tra i 50 e i 500 dipendenti - dimostra che vince la scommessa dell’economia digitale chi mette al centro la qualità della produzione (di prodotto e di processo), investe nella forza lavoro, considerata come vero patrimonio, e interagisce positivamente con ciò che sta attorno all’organizzazione (ambiente, territorio, stakeholder, istituzioni, comunità…). In questo 22% di realtà vincenti, l’utile conta solo se le imprese sanno creare qualcosa di più del solo valore economico.
Secondo Giuseppe Scaratti, docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni dell’Ateneo, quando l’enfasi su planning, budget e ritmi di tempo omologa ogni diversità e creatività individuale, si rischia di vanificare la possibilità di riconfigurare le organizzazioni come comunità, come indicato da Henry Mintzberg, che enfatizza il nuovo ruolo da assegnare ad aspetti di fiducia, rispetto, collaborazione e responsabilità reciproca.
«Con l’automazione delle mansioni e l’evoluzione delle figure e responsabilità professionali, le qualità e competenze umane sono i nuovi elementi essenziali tanto per i dipendenti quanto per l’ambiente di lavoro» affermano, sulla base dello loro ampia esperienza, due professioniste abituate a conoscere la persona che hanno di fronte, cercando di capire come affronta la sua quotidianità lavorativa più che il curriculum che presenta.
Per Patrizia Crimella (nella foto a sinistra), consulente per la divisione industriale di Adecco Italia sul territorio di Milano e Monza Brianza, e Cristina Cancer, Head of Talent Attraction and Academic Partnership della stessa società «le aziende stanno indirizzando le loro ricerche verso profili sempre più dotati di competenze trasversali come la flessibilità, il problem solving, l’intelligenza emotiva e il pensiero critico. Oltre a queste soft skill basilari, quali la capacità comunicativa e di intrattenere rapporti interpersonali, si nascondono abilità più sfaccettate che acquisiscono nuova importanza in un ambiente di lavoro sempre più globale e inclusivo, dove la capacità di far coesistere competenze hard e soft, unendole alla cultura aziendale, diventa l’elemento sempre più rilevante per poter rimanere impiegabili sul mercato».
Per questo, come spiega il professor Scaratti, è necessario acquisire nuove strategie formative e nuovi vocabolari organizzativi: sensemaking come attribuzione di senso alle cose che si fanno e antidoto alla “stupidità aziendale”, intesa come mancanza di riflessività; loose coupling, come ragionevole adattività e aggiustamento ai contesti; enactment, quale attivazione e non elusione dei problemi e conseguente ricerca di soluzioni sostenibili; mindfulness, in quanto capacità di cogliere gli scenari complessi e attivarsi in modo congruente. Che è poi quanto si prefiggono di fare molte proposte formative dell’Ateneo, tra cui il nuovo master in Competenze filosofiche per le decisioni economiche (si veda a lato).
«È il mercato stesso, nelle vesti del cliente, che più spesso e con maggiore cognizione di causa espone, in fase di definizione della job description, la necessità di trovare candidati in grado di mettere le proprie “competenze personali” in campo per poter assolvere al ruolo che gli verrà dato in modo più soggettivo e con maggiore creatività» fanno notare la consulente e la recruiter Adecco.
Non è un caso che, secondo Patrizia Crimella e Cristina Cancer (nella foto a sinistra), «il driver più importante da parte delle aziende che cercano nuovi profili, ma anche da parte dei candidati stessi, sia la corrispondenza dei valori e della cultura aziendale che viene comunicata. Un contesto lavorativo caratterizzato da benessere, possibilità di miglioramento e libertà di dimostrare le proprie competenze rappresenta l’ambiente migliore per esprimere il proprio talento ed è su questi valori che le aziende basano la propria strategia di employer branding e di welfare aziendale in ottica di attraction dei talenti» concludono, in perfetta sintonia con le proposte formative, che si concentrano sulle competenze trasversali, e con le teorie organizzative.
In sintesi, come afferma Giuseppe Scaratti, «capitale personale, sociale e organizzativo concorrono a configurare un terreno comune di sostenibilità, in cui sono percepiti e diffusi, sviluppati, riconosciuti e premiati comportamenti che si ispirano a un’idea di azione produttiva che anima la tensione trasversale verso risultati perseguiti».
«La posta in gioco – secondo lo psicologo del lavoro dell’Ateneo – è il recupero di un autentico orientamento value based, che restituisca alle organizzazioni nuove culture imprenditoriali e manageriali e rinnovate condizioni per lo sviluppo di un’etica ed estetica del buon lavoro». Buono e bello, concetti più propri della filosofia che dell’azienda, diventano, così, importanti per “fare l’impresa” di tenere insieme eccellenza delle performance offerte, generazione di valore sociale e, perché no, piacere lavorativo