«La sharing economy è un nuovo modello d’integrazione tra compravendita economica e relazioni sociali: persone alla pari tra di loro scambiano beni e servizi online». Una definizione chiara per un fenomeno che, dopo l’euforia iniziale, solleva anche qualche ombra. Ivana Pais (nella foto a lato), sociologa della facoltà di Economia dell’Università Cattolica, spiega l’idea chiave di un modello economico, che sarà al centro della quarta edizione di Sharitaly, evento leader nel settore, in programma a Milano il 15 e 16 novembre. Insieme ai suoi allievi del corso di Sociologia economica, la docente dell’Ateneo ha partecipato alla scrittura della voce “sharing economy” di Wikipedia Italia (articolo a lato). Ma qual è la specificità di questo nuovo tipo di economia?
«Tradizionalmente - afferma la professoressa Pais - esistono tre tipi di scambi. I primi sono quelli in cui ci si relaziona tra sconosciuti, come per esempio comprare un caffe al bar. In questo caso lo scambio è abilitato dal denaro e da meccanismi di fiducia generalizzata rispetto al sistema: ci fidiamo dei controlli igienici tesi a stabilire che quel caffè non ci faccia male. Il secondo tipo prevede la reciprocità dello scambio di beni e servizi sulla base delle relazioni interpersonali. Per esempio, quando qualche amico ci offre un caffè a casa sua, nessuno certifica dell’esterno che siano seguite tutte le norme igieniche per la preparazione, ma noi ci fidiamo in forza della relazione reciproca».
Fin qui niente di nuovo. Dove sta, allora, la novità della sharing economy, oltre a basarsi su piattaforme digitali? «È nel mix delle due forme tradizionali di scambio. Facciamo un esempio: con Blablacar prendiamo un passaggio in auto da uno sconosciuto di cui ci fidiamo per i meccanismi reputazionali del sito. Non abbiamo a che fare con un tassista, a cui paghiamo una prestazione e di cui ci fidiamo perché inserito in un meccanismo di controllo da parte del comune di residenza; ma non abbiamo a che fare neppure con un amico o un parente che ci prende in auto sulla base di una relazione di gratuità reciproca. Inoltre, se fino a ieri non ci fidavamo a prendere passaggi da sconosciuti, con Blablacar lo facciamo perché il guidatore è verificato sia dalla piattaforma sia dalle valutazioni che altri passeggeri hanno espresso su di lui».
Qual è la situazione nel nostro Paese? «In Italia oggi ci sono tante piattaforme e modelli di business basati sulla sharing economy. Spaziano da Teatroxcasa, che permette a un privato di organizzare nella propria abitazione degli spettacoli teatrali a cui invitare anche degli sconosciuti, a Gnammo, che consente di organizzare cene a casa di privati invitando chi si desidera. In ciascuno degli ambiti coinvolti c’è uno scambio di beni tra pari. Una caratteristica tutta italiana, derivante dalla nostra formazione, è la presenza di tantissime piattaforme molto attente al settore sociale e culturale. A fronte di tale abbondanza, il problema principale è la mancanza di un volume di mercato che consenta di sostenere tali attività».
Ci sono altri ostacoli? «Soprattutto quelli relativi al regime fiscale. Bisogna, però, fare una distinzione tra la vera sharing economy e quella on-demand. La prima si basa sulla parità tra offerente e compratore, che non si riscontra nella seconda. Della sharing economy fanno parte realtà come Airbnb, il portale on-line che mette in contatto privati che offrono e che cercano camere o interi alloggi per un determinato periodo di tempo. Qui la problematica di natura fiscale si può verificare sia per chi decide di non pagare le tasse, sia per chi invece vorrebbe farlo ma non riesce a districarsi nelle norme burocratiche che possono essere differenti tra regione e comune che vi è situato».
E per quanto riguarda l’economia on-demand? «Qui i problemi fiscali si possono presentare ai danni dei lavoratori. Essendo la piattaforma molto più potente di chi vi opera, può accadere che decida unilateralmente un taglio dei compensi dei propri dipendenti, che si trovano a essere non sufficientemente protetti da evenienze di questo tipo».