di Alice Dinegro *
Ore 7. Suona la sveglia. Mi alzo di scatto sul letto, subito attenta e mi guardo intorno: un cassettone stile ottocento, un armadio Ikea, un comodino in coppia con il cassettone (ma che per essere più cool è stato ridipinto di azzurro), una sedia, i miei libri. Poi alcune foto, sparse un po’ a caso o appoggiate sulla scrivania, e soprattutto la cartina del Portogallo, appesa proprio di fonte al letto, dove ho segnato tutte le città che ho visitato in questi mesi.
Sono un numero considerevole, non mi posso lamentare, anche se non essere riuscita ad arrivare fino a sud, a Faro, mi disturba un po’. Abbasso lo sguardo e vedo ciò che fino ad allora ho cercato di evitare: aperti per terra, uno a destra e uno a sinistra del letto, ci sono i miei bagagli, strapieni. I mobili, in realtà, son vuoti. Oggi è il mio ultimo giorno di Erasmus e, se si potesse sentire il mio tono, lo dico come una condanna.
Ieri ho cercato di far entrare in due valigie da 20 chili gli ultimi sei mesi della mia vita. Impresa impossibile. Ci ho certamente messo dentro i miei vestiti e le mie scarpe, “vecchi” e nuovi, acquistati durate i tanti mesi trascorsi con le mie amiche. Ci sono i miei libri, in italiano, inglese e portoghese. Poi c’è la cartelletta: contiene tutti i documenti ufficiali dell’Erasmus, le fotocopie del documento d’identità, le autorizzazioni per la ricerca tesi ma raccoglie anche tutte le “prove” dei miei viaggi: biglietti aerei, tickets dei musei, abbonamento dei mezzi, flyer informativi, biglietti da visita dei vari locali visitati, depliant turistici. Infine, tra astucci e accessori, ci sono due bottiglie di porto: un branco e un tawny, le mie qualità preferite; mi vedo già sorseggiarne un bicchiere mentre, dall’Italia, ripenso al mio Portogallo.
Mio, sì. Perché quando vivi un Erasmus il tuo cuore sembra farsi più grande: tutto l’affetto che provavi per la tua famiglia, la tua città, la tua nazione, ora è diventato doppio, verso un’altra casa, un’altra famiglia, un’altra nazione. Scopri di avere un mare di emozioni nuove e fortissime verso i posti in cui hai vissuto e le persone con cui hai condiviso sei mesi della tua vita. Tra tutte queste, c’è anche (e a tratti soprattutto) la gelosia.
La mia ultima giornata a Porto è dedicata ai saluti: i più intimi, ai luoghi che ho amato; i più dolorosi, alle persone con cui ho condiviso la mia vita. Ogni posto in cui passo mi fa venire in mente momenti bellissimi, fatti di risate, chiacchere, scambi di confidenze e, sempre di più, oltre all’amore si fa strada la malinconia e la tristezza. Dall’oceano al fiume, dal faro in Foz al quartiere dei pescatori Afurada, dalle cantine di Vila Nova de Gaia al teatro Casa da Musica, fino alla mia casetta in Rua do Monte Alegre.
I miei amici mi fanno tornare il sorriso, per poi far finalmente scoppiare le lacrime quando hanno la buona idea di regalarmi una nostra foto. E si comincia a contare: l’ultima pastel de nata, l’ultimo aperitivo, l’ultimo bicchiere di porto, l’ultima cena tutti insieme, le ultime risate, gli ultimi abbracci, gli ultimi minuti di una parte della mia vita che non tornerà mai più, ma che è stata così prepotentemente bella, piena, ricca di emozioni, esperienze, lezioni di vita che rivivrei di corsa dall’inizio, anche a costo di versare di nuovo, alla fine, qualche lacrima.
Ho lasciato Porto, ma l’Erasmus no, quello per me non è finito. Non sono finite le amicizie, non è terminata la voglia (quasi famelica) di scoprire, di imparare, di viaggiare, di conoscere persone, tradizioni, cibi nuovi, né dimenticherò mai i grandi insegnamenti di accoglienza, inclusione, flessibilità, capacità di adattamento, dinamicità, curiosità, spinta ad aiutare, scambiare e condividere ciò che si ha e si sa.
Nessuno potrà mai più farmi tornare indietro, perché l’Erasmus non è una parentesi isolata della mia vita: è un modo di essere che non finirà mai.
* 24 anni, di Novara, studentessa laurea magistrale in Management per l’impresa, facoltà di Economia, campus di Milano