“Chierici, cortigiani, battitori liberi. Quale ruolo per gli intellettuali?” è il titolo del convegno promosso dal centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita”, che si è tenuto mercoledì 30 ottobre in cripta aula Magna (largo Gemelli 1, Milano). In questa occasione il professor Giuseppe Lupo lancia un dibattito a cui aderiscono alcuni docenti della Cattolica

di Giuseppe Lupo *

Siamo tutti consapevoli di vivere dopo la caduta del Muro di Berlino, in un’epoca che da quell’avvenimento ha preso spunto per autodefinirsi post-ideologica, eppure talvolta continua a sentirsi orfana di quelle ideologie. Può sembrare una contraddizione e forse lo è, ma sempre più frequentemente si avverte un alone di nostalgia non tanto nei confronti di un mondo diviso in parti uguali e dominato da rigide divisioni politiche, com’era prima dei fatti berlinesi di trent’anni fa, ma di cercare un rimedio a quel senso di vuoto che la fine delle ideologie ha portato in dote in coincidenza certo con la stagione che da lì a poco sarebbe cominciata e sotto il dominio di una condizione anomala: quella di disorientamento (o spaesamento). 

Nessuno rimpiange i decenni della Guerra Fredda o la contrapposizione tra modello occidentale e sistema sovietico. Nessuno vorrebbe restaurarne il dominio. Ciò che manca però sono le idee (non le ideologie): quei processi di pensiero che mirano a costruire il domani o almeno a fare luce sulle zone d’ombra che assediano l’oggi. Mancano, in ultima analisi, gli intellettuali, per quanto il loro operato, nel corso del Novecento, sia stato costellato da insuccessi e su di essi abbia gravato l’accusa che Julien Benda, rifacendosi alle questioni sollevate al tempo di Dreyfus in un celebre saggio del 1927, ha radunato sotto il sospetto del “tradimento”. La trahison des clercs, questo il titolo del saggio, ha seminato il dubbio sulla natura infida dell’intellettuale in età contemporanea, ma ha avuto anche il merito di riaccendere un discorso che covava sotto la cenere da secoli: il rapporto controverso tra cultura e potere, il pericoloso cortocircuito fra chi manovra le parole e chi detiene le chiavi della città. 

Gran parte del secolo che ci siamo lasciati alle spalle è stato disegnato da quel titolo così eloquente. E se in questo momento è pressoché unanime il bisogno di idee, lo è in relazione alla sensazione di assenza o di latitanza che grava sugli ultimi decenni dopo la spericolata scorribanda che la casta degli intellettuali ha percorso a partire dal secondo dopoguerra. È difficile affermare quanto di utile e di necessario rimanga di quel periodo complicato e di quale ruolo in particolare oggi si avverte l’urgenza. Di sicuro però occorre rivederne lo statuto, ripensarne la funzione, ristabilire un contatto in ragione non tanto di un progetto culturale che ne invochi il ritorno - finalizzato a cosa? -, piuttosto che si interroghi su un’idea di mondo che non appaga più nessuno e su cui tutti alzano la scure senza fornire una soluzione alternativa o almeno una chiave interpretativa.

* scrittore e docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea, facoltà di Lettere e Filosofia, campus di Brescia e di Milano


Primo contributo di una serie di articoli dedicati al ruolo degli intellettuali