«Che fine ha fatto il Subbuteo?». É il titolo di un brano del cantautore Enrico Lanza, in arte Mapuche, lasciato per qualche tempo in un cassetto e che, per un caso fortuito, è diventato la colonna sonora di un video realizzato da Giusi Santoro sulla storia del leggendario gioco da tavolo nato in Gran Bretagna nel 1947. Un progetto che ha visto la luce solo grazie a un progetto di crowdfunding.
Un termine difficile da pronunciare, impossibile da tradurre, questo. Eppure il crowdfunding sta entrando nel vocabolario insieme ad altre pratiche e strumenti, quali il coworking, open source, open manufacturing, baratto, monete complementari, community marketplace: esperienze riunite sotto il cappello della sharing economy come forme di scambio alternative al mercato e alla redistribuzione. Ivana Pais (nella foto), docente di Sociologia economica dell’Università Cattolica, ha studiato fin dal suo sorgere quella che qualcuno, forse ingiustamente, ha ribattezzato una colletta 2.0 o digitale.
«L’elemento determinante - spiega la professoressa - è che si costruisce e si mantiene una comunità attorno a un progetto: versare risorse a sostegno di una iniziativa è rilevante, ma a volte è semplicemente il gesto concreto che dà il segno dell’appartenenza alla comunità. Potremmo dire che il crowdfunding è colletta quando è fatto male, quando si limita a una raccolta di fondi online: è un sotto utilizzo di uno strumento che ha un potenziale ben più ampio».
Che utilità ha il crowdfunding nel contesto socio-economico italiano ed europeo? «Il fenomeno si situa in uno scenario in cui si sentono ancora gli effetti della crisi, che rende scarse soprattutto le risorse per l’avvio di nuovi progetti. Se le realtà più consolidate continuano a poter accedere a forme di finanziamento tradizionali – le banche – la maggior difficoltà è per le nuove progettualità, che non trovano risorse per iniziare. In altri contesti, ad esempio quello americano, le start-up trovano una risorsa preziosa per crescere nel venture capital, che in Italia è meno diffuso. Nel nostro Paese il crowdfunding può diventare, se non sostitutivo, almeno complementare: una tappa di avvicinamento ai canali di finanziamento tradizionali. Sono infatti numerosi i progetti che vengono avviati col crowdfunding, mostrano la propria presa di mercato e passano, in un secondo momento, ai modi di finanziamento maggiormente conosciuti».
Altri vantaggi? «C’è l’aspetto della comunità, un modo diverso di costruire progettualità: nella tradizionale logica di prodotto l’elaborazione del progetto è antecedente all’uscita sul mercato. Col crowdfunding la logica viene ribaltata, si esce sul mercato prima di avere il progetto. Si presenta al pubblico un’idea, aggregando attorno a essa una community di persone, l’idea viene sviluppata solo in un secondo momento. I potenziali clienti, quindi, sono parte del processo produttivo fin dalle prime fasi: si costruisce il prodotto assieme alle persone che lo sostengono. Infine, bisogna sottolineare che il crowdfunding funziona su progetti delimitati, con un inizio e una fine, a differenza del fund-raising».
Possiamo dire che è uno strumento che facilita l’innovazione? «Certo, anche perché la diffonde nel momento in cui la crea: le piattaforme non sono solo un modo di raccogliere fondi, ma di comunicare l’idea innovativa, una sorta di campagna di marketing che nasce ancor prima del prodotto o del servizio».
Ed è un approccio che enfatizza la natura socio-economica del territorio in cui si innesta? «Sì, è una modalità che valorizza ciò che c’è: in Italia troviamo in particolare i progetti sociali, radicati sul nostro tessuto, a differenza della Silicon Valley dove prevalgono i progetti tecnologici».
Cosa spinge una persona a finanziare? «Due sono le logiche principali: la prima è l’individualismo a rete, dove il progettista presenta l’idea, che viene finanziata dai suoi contatti diretti, quindi dai contatti di secondo grado: gli amici degli amici, per intenderci. In questo caso siamo davanti più a una rete che non a una comunità, in cui al centro c’è il progettista e per propagazione vengono intercettati nodi sensibili rispetto a date tematiche: è infatti molto facile che un comune amico abbia punti di contatto anche con me. Si parte cioè dall’interesse per la persona (il progettista), più che per l’idea progettuale».
L’altra logica qual è? «È quella della comunità che si crea attorno a un tema e che riconosce un senso di appartenenza rispetto al tema stesso. Non c’è necessariamente un legame personale col progettista, ma rispetto alla comunità».
Può farci un esempio? «Il festival del giornalismo di Perugia: quando è venuto a mancare il finanziamento pubblico della Regione, sono stati gli stessi sostenitori a chiedere ad Arianna Ciccone di organizzare una campagna di crowdfunding. C’era una comunità, con canali di propagazione forte: molti hanno donato in veste di questa affiliazione percepita. Oppure il caso di un gruppo di genitori e alunni di un Liceo Scientifico di Ferrara, che ha promosso una campagna per l’acquisto di una stampante 3D, coinvolgendo docenti ed ex-allievi. Il crowdfunding non è solo finanziamento, è anche partecipazione».
Se un elemento fondamentale è la comunità, possiamo dire che il legame col territorio, soprattutto in Italia, facilita l’organizzazione di una campagna di successo? «Sì. Pensiamo ad esempio al crowdfunding civico, creato per sostenere progetti di bene comune, come quello proposto dal Comune di Bologna per restaurare i portici di San Luca, dove hanno raccolto oltre 300.000 euro».
E come aiuto per l’avvio di una start-up? «Certamente. Un caso è quello della creazione di “Orto in tasca”, una piattaforma web e un’applicazione per individuare le aziende agricole più vicine, con il prezzo aggiornato dei prodotti e le informazioni sui servizi offerti. È quanto ha realizzato Eva De Marco, un ingegnere col pallino in testa di voler creare qualcosa di utile. In questo caso il crowdfunding ha integrato – e in parte agevolato – il prestito bancario. A marzo dello scorso anno ha costituito una società con un capitale minimo, 10.000 euro. Ora il crowdfunding è diventato lo strumento di marketing per promuovere la sua applicazione, ne hanno parlato radio e giornali nazionali: la reazione da parte del pubblico c’è, deve spingere sulle aziende agricole per consolidare il progetto».
Ci sono anche delle conseguenze negative dell’utilizzo del crowdfunding? «Soprattutto quando un progetto raccoglie finanziamenti molto importanti. Se da un lato è la dimostrazione di un interesse suscitato dalla propria iniziativa, dall’altro permangono le difficoltà di tutte le start-up nell’avviare l’impresa, occorrono quindi molto realismo e senso di responsabilità».
Allora quale potrebbe essere un valore aggiunto? «Un supporto alla creazione d’impresa in senso stretto, per esempio mettendo in contatto aziende tradizionali che non sono in grado di fare ricerca e sviluppo con giovani brillanti che, viceversa, partono dallo sviluppo dell’idea. Al giovane si garantisce una capacità produttiva che ancora non possiede, all’azienda la ricerca che non può costruire “in casa”. Occorre lavorare come sistema».
E un’impresa esistente, come può conoscere i giovani che potrebbero rilanciarne l’innovazione? «Per esempio attraverso le grandi associazioni di categoria e di rappresentanza».