«Tutta la musica nuova mi dà l’impressione di già sentito. Non bisogna copiare lo stile di un altro artista. Si può, invece, imparare molto dalla sua etica e dalla sua attitudine». È l’attitudine che Eugenio Finardi ha mantenuto intatta, anche dopo quarant’anni su e giù per l’Italia a suonare la sua musica.
Il cantautore milanese parla a ruota libera della sua vita - la musica -, ospite del "Laboratorio di Ufficio Stampa per la musica" del master in Comunicazione musicale dell’Università Cattolica, tenuto da Riccardo Vitanza, titolare di Parole e Dintorni, la maggior agenzia italiana di PR in questo settore. Stimolato dalle domande degli studenti, alternando al suo racconto aneddoti tratti dalla sua esperienza: dal ricordo affettuoso della madre cantante lirica, che gli ha trasmesso l’amore per la musica, all’incontro con Demetrio Stratos, cantante e leader degli Area, fino alle partecipazioni al festival di Sanremo, l’ultima nel 2012.
Proprio sul festival Finardi non fa mancare il suo giudizio: «Negli anni ’60 serviva ai cantanti per lanciarsi, ora è utile soprattutto per i giovani che vogliono emergere, tutti gli altri non hanno il rilancio che si aspettano. Sanremo è allettante, ma può essere una trappola: è un festival popolare, ad andarci c’è il rischio di perdere credibilità nei confronti del proprio pubblico, come per esempio può capitare ai cantautori o ai gruppi rock».
Rock è stato il punto di partenza della carriera di Finardi, insieme al blues e alla musica classica: «A 8 anni ho sentito per la prima volta la voce di Harry Belafonte e sono rimasto folgorato dalla sua impostazione vocale. Quando di anni ne avevo 13, invece, uscì Satisfaction dei Rolling Stones e fu amore a prima vista. La musica americana è stata fondamentale per la mia formazione. Mia madre era americana e avevo una zia che ci spediva i dischi del Newport Folk Festival: così ho scoperto artisti come Pete Seeger e Woody Guthrie. Amo molto anche la musica classica, in particolare la musica barocca».
Ciò che conta però, al di là dei generi, nel fare musica, è l’attitudine: «Non ho mai fatto una canzone reggae in vita mia, ma a Bob Marley devo molto per quanto riguarda le motivazioni che mi spingono a fare questo mestiere: la musica deve avere un senso, deve servire a qualcosa. Non può essere solo estetica».
In un periodo in cui i concerti sono diventati la vera fonte di guadagno di un artista - «il disco ormai è uno strumento di promozione per i live» - la musica dal vivo per Finardi rimane la dimensione migliore per diffondere la propria musica: «In Italia ci sono posti meravigliosi dove esibirsi, come le grotte di Castellana in Puglia, dove è in corso un festival, “Natale nelle Grotte”, di cui sono direttore artistico».
Oltre ai live, anche la comunicazione è diventata molto importante per un artista: «I comunicati stampa sono ancora utili, perché vengono ripresi dai giornali, ma è diventata fondamentale la comunicazione attraverso i social. Se avessi vent’anni e dovessi promuovere la mia musica, però, farei esattamente quello che ho fatto quando ero un artista emergente: bisogna fare squadra con altri artisti, trovare motivazioni e intenti comuni coi musicisti con cui si collabora, non puntare solo sull’immagine, ma soprattutto sulla sostanza».