di Velania La Mendola
La morte di un bambino ci colpisce? La risposta è talmente ovvia che non meriterebbe altre parole se non il monosillabo “si”. Eppure la morte dei più piccoli e indifesi sembra non essere sufficiente a cambiare il peggio del nostro mondo. C’è però una foto di un bambino, un piccolo naufrago siriano, che qualcosa ha cambiato. Quel bambino si chiamava Alan Kurdi. Fausto Colombo, sociologo dell’Università Cattolica, si è preso la briga di seguire il percorso della foto di Alan, di non fermarsi sulla soglia della commozione, ma di attraversarla indagando attraverso la scienza della comunicazione perché sia diventata un simbolo in grado di smuovere l’opinione pubblica. È nato così il libro Imago pietatis. Indagine su fotografia e compassione (Vita e Pensiero) che verrà presentato al Salone del libro di Torino 2019 - sabato 11 maggio ore 18.30 Sala avorio – con Domenico Quirico, il giornalista de La Stampa. Attendendo il confronto tra questi due esperti della comunicazione, abbiamo incontrato l’autore per un’anteprima.
Partiamo dal titolo: Imago pietatis è un titolo particolare, pieno di riferimenti simbolici, vuole spiegarcene la scelta? «L’immagine della pietà è la prima che ho visualizzato quando ho visto la foto del piccolo Alan portato in braccio dal poliziotto. Le foto spesso fanno eco alle icone pittoriche. Ma oltre a questo il latino mi serviva per mettere una sorta di velo su quell’immagine terribile, una necessaria distanza. Il latino restituisce il senso di mistero e rispetto su quella morte; inoltre era un modo per richiamare il senso del mio viaggio verso le radici del pensiero antropologico, tanto che ho scelto di utilizzarlo in tutti i titoli dei capitoli: Historia, Camera Obscura e Imago pietatis appunto».
Quando ha visto la prima volta la foto di Alan e quando ha deciso di seguirne la storia? «Il 3 settembre 2015, online sui giornali, come tanti altri. Poi è rimasta nel cassetto della mia memoria per un po’ fino a quando è scattata la scintilla in occasione di un dibattito in cui mi hanno chiesto di parlare del rapporto tra immagine e immaginario sociale. Sono tornato a quella foto e ho scoperto che la sua storia non si era fermata a quell’istante mediatico, ho scoperto che il viaggio di Alan e della sua immagine aveva “prodotto” molti altri messaggi, opere d’arte, elaborazioni grafiche, era diventata un simbolo che ancora oggi imperversa nella nostra storia. Basti pensare alla nave della Ong tedesca Alan Kurdi di cui si è parlato sui giornali fino a qualche giorno fa».
Un simbolo che è “esploso” grazie a twitter, social di nicchia rispetto al grande utilizzo di instagram e facebook. Eppure dalla sua analisi si evince che è stata la miccia dell’«esplosione» mediatica. Come spiega questo divario tra numero di persone che lo utilizzano e capacità di far penetrare il messaggio? «Twitter è un social anomalo, nel senso che è più una piattaforma di microblogging che un social vero e proprio. Ogni tweet è una dichiarazione-stampa e questo lo rende una bolla comunicativa ridotta rispetto agli altri, ma la platea dei frequentatori è composta da addetti ai lavori, opinion leader, attivisti, ecc. È un luogo di ascolto e dimostra come sia possibile una connessione tra vecchi e nuovi media».
In che senso? «Il viaggio della foto di Alan è iniziato in Medio Oriente, da piccoli attivisti, è partita dal paese in cui la tragedia aveva luogo. Non è nato come un problema di coscienza, ma dalla narrazione di quello che stava accadendo. Sulla rena della spiaggia di Bodrum Nilüfer Demir, fotografa dell’agenzia DHA (Dogan Haber Ajansi), scatta una serie di circa cinquanta foto che comprendono quelle di Alan. La notizia del naufragio di un gommone di rifugiati siriani che si è rovesciato nel tentativo di raggiungere l’isola di Kos (12 morti, una tragedia che in termini numerici è meno clamorosa rispetto ad altri catastrofici naufragi precedenti) viene diffusa dalle agenzie. Da qui viene ripresa su Twitter da una giornalista e attivista turca, Michelle Demishevich. Dalla scintilla, si dirama una nutrita serie di piccoli fuochi: sono i retweet di fonti siriane, libanesi e palestinesi. Il 2 settembre Liz Sly, Bureau Chief del “Washington Post Beirut”, propone la notizia sul suo account e il suo tweet viene rilanciato più di 7.000 volte. Da una giornalista affiliata a un’importante testata internazionale la notizia divampa e diventa un problema di coscienza».
Tra i vari percorsi di riflessione che il libro intreccia tra etica e fotografia colpisce la differenza tra l’etica del mostrare e l’etica del vedere. Qual è la differenza e come ci riguarda? «Sono complementari e insieme compongono l’etica dell’immagine. Forse il mondo contemporaneo non ha più grandi etiche di riferimento, ma questo non ci giustifica dal non prendere scelte etiche. Il fotografo che mostra ha come unica alternativa quella di non mostrare. Io che guardo posso farlo con un po’ di voyerismo, di curiosità, con un po’ di sollievo (questa tragedia non mi riguarda), oppure posso sentirmi responsabile. La foto di Alan ha avuto una ricaduta oggettiva sulle cose, l’impatto di quella foto ha prodotto delle cose: opere, movimenti, c’è una nave che sia chiama Alan Kurdi che gira nel Mediterraneo, io ho scritto questo piccolo libro…».
Quasi un diario… «Si, perché è scritto in prima persona e poi è “piccolo” come mole perché credo che lavorando sul frammento riusciamo ad avere meglio una visione del tutto; è come guardare nell’Aleph di Borges: guardo un oggetto culturale, in questo caso la foto di Alan, e lì tutto si riflette».
In vista dell’incontro al Salone, le leggo una riflessione di Quirico sull’importanza della narrazione: «Non c’è un editoriale che abbia cambiato la storia del mondo, ma ci sono molti onesti racconti della realtà che lo hanno fatto» (Il tuffo nel pozzo, Vita e Pensiero). «Sono d’accordo sul fatto che il raccontare sia fondamentale. La volontà di trasformare via via gli eventi tragici di cui le foto sono testimoni in una storia compiuta è un’istanza umana. Raccontare è insieme condividere il dolore delle vittime e appropriarsene».
In questo senso si parla di compassione nel libro? «Sì, perché la legittimità di questa operazione dipende soltanto da quanto essa riesca ad attivare in noi non soltanto un’emozione, ma anche una volontà di agire, di compensare quel dolore sentendolo nostro. Se sono coinvolto, se sento veramente il lutto di una famiglia, come quella di Alan, allora non posso rimuoverlo. Sull’immigrazione tendiamo a rimuovere il problema dei morti: mettiamo etichette (rifugiato, migrante economico, ecc.), puntiamo il dito sulle cause (mercanti, governi, ecc.), ci accapigliamo sul contorno ignorando le persone. Ma la compassione è riconoscere nell’altro, nel prossimo, una mia possibilità. La conversione, quando è autentica, mi costringe a prendere atto della mia umanità, è una svolta. Così la compassione è tale se genera azione, anzi se è azione».
L’autore del libro, che sarà presto tradotto in Francia, ha donato i diritti a Save the Children. Alan Kurdi continua il suo viaggio.