Secondo il World Economic Forum (Wef) le tre principali cause di instabilità mondiale dei prossimi anni saranno le fluttuazioni fuori controllo dei mercati finanziari, la disuguaglianza nel benessere e la mancanza di acqua per vaste aree del pianeta. Vale a dire che i più grandi problemi che dovrà affrontare l’umanità saranno generati dall’uomo stesso. È l’atroce ironia che fa notare Robert Hunter Wade (a sinistra nella foto con Giuseppe Gabusi, con il traduttore del volume, e la professoressa Simona Beretta, direttore del master Aseri in International Cooperation and Development), docente di economia alla London School of Economics and Political Science, in occasione del covegno The costs of income inequality: capitalism and democracy at cross-purpose organizzato dall’Aseri per la presentazione dell'edizione italiana del manuale Global Political Economy di John Ravenhill curata da Giuseppe Gabusi (Guerini 2013).
Tutte le economie sviluppate del pianeta stanno attraversando una fase acuta di americanizzazione: una minoranza ristretta della popolazione mondiale ha visto crescere la propria ricchezza in una percentuale esponenziale rispetto agli strati più bassi. Le locomotive economiche come la Cina e l’India guidano il trend, seguite a ruota da tutte le economie occidentali. Siamo di fronte al più grande divario nella ridistribuzione della ricchezza degli ultimi 200 anni. Il World Economic Forum prende atto del problema, ma afferma di non poter essere l’artefice della soluzione. La disuguaglianza economica è un concetto politico e il Wef è nato come organizzazione apolitica: ha solo il compito di studiare come ridurre la povertà e creare nuove possibilità di sviluppo. Il resto è una faccenda di esclusiva discrezione dei governi nazionali.
Il problema è che all’ultima riunione del G20 a San Pietroburgo non hanno speso una sola parola sulla disuguaglianza economica. In una democrazia forte i governi seguono delle politiche coerenti con l’opinione del votante medio. Sempre in più Paesi le politiche economiche vengono decise dall’1% della popolazione a favore dell’1% più ricco della stessa.
«Non bisogna fidarsi dei conservatori che difendono la disumanizzazione dell’economia con la scusa del progresso tecnologico - osserva Wade -. La volontà è esclusivamente politica. Sono necessarie politiche di predistribution che intervengano sulla ripartizione della ricchezza nella fase precedente alla tassazione o alla revisione selvaggia della spesa pubblica. È decisamente più semplice che prelevare dai guadagni già posseduti dai lavoratori».
Altro punto dolente è rappresentato dall’alta finanza, presentata erroneamente come la soluzione della crisi economica e della disuguaglianza sociale, quando in realtà ne è la maggiore causa. Lasciarla ancora priva di regole e libera di agire è un suicidio sociale. La grande finanza non lubrifica il mercato, è un universo autoreferenziale che fa tutto il possibile per tenersi lontano dall’economia reale se non per ottenerne guadagni sostanziosi al minor rischio possibile. Inoltre corrompe il sistema politico con le generose donazioni ai patiti politici che si vedono privare di qualunque credibilità nel proporre una regolamentazione efficace del Far West che è oggi la finanza internazionale.
Servono risposte urgenti, ma nessuno sembra essere in grado di darle. Intanto il Coefficente Gini, che misura le disuguaglianze nel benessere nei paesi del mondo, è sempre più alto nei paesi occidentali. Anno dopo anno il distacco con i Paesi latino americani e medio orientali, primi in classifica, si riduce sensibilmente. Wade conclude citando liberamente Machiavelli: «Quando i potenti stabiliscono le leggi, lo Stato che governano è destinato a essere corrotto e ingiusto».