Ciò di cui l’uomo può e non può nutrirsi è da sempre oggetto di una regolamentazione sociale e giuridica. Dal tabù della carne di maiale alla proibizione delle bevande alcoliche nell’Islam, dal divieto di mescolare il latte e i suoi derivati agli alimenti carnei nell’Ebraismo, ai periodi di digiuno prescritti dal Cristianesimo: per il fedele, attenersi a queste regole significa porsi in rapporto con la natura nel rispetto di un ordine che lo trascende. Tramandare le regole alimentari religiose oggi deve rapportarsi con esigenze legate all’igiene e alla sicurezza degli alimenti, alla tutela e al benessere degli animali, ai limiti di budget e agli standard nutrizionali che vincolano le strutture sociali come le scuole, gli ospedali e le carceri, e infine alle dinamiche del mercato agro-alimentare, dove la domanda è condizionata sempre più dalle istanze della tracciabilità e del consumo consapevole.
«Mangiare è una discriminante seria tra la vita e la morte, lo sa bene quella gran parte dell’umanità che lotta ogni giorno “per il pane quotidiano” - sottolinea il professor Antonio Maria Chizzoniti, direttore del dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università Cattolica -. Forse anche per questo, per il suo essere legato alle cose prime e a quelle ultime, il cibo ha avuto e continua a possedere un ruolo importante per gran parte delle religioni, che non mancano di ricorrere anche a metafore alimentari quando, ad esempio, parlano di nutrimento dell’anima o di cibo spirituale».
Il percorso proposto dal dipartimento di Scienze Giuridiche agli studenti del Liceo Gioia di Piacenza dal 3 al 5 febbraio ha spinto gli studenti a riflettere sulle problematiche che l’osservanza degli obblighi alimentari religiosi pone alla convivenza all’interno delle società multiculturali e multi religiose.
«Siamo abituati a convivere e nutrirci con le “nostre regole alimentari religiose”, quelle proprie della tradizione culturale di nostra appartenenza, regole che in qualche caso attraverso un processo di secolarizzazione hanno finito per essere assimilate dalle norme civili», sottolinea il Chizzoniti. Ma come ricorda nel volume Cibo e Religione: diritto e diritti - curato dal professore insieme a Mariachiara Tallacchini, Libellula Edizioni, 2010, disponibile in versione ebook gratuita - la gran parte delle confessioni religiose propone ai propri fedeli complessi più o meno strutturati di regole alimentari religiose, compresa ovviamente la Chiesa cattolica la cui normativa punta più sull’astinenza che su divieti alimentari specifici.
«Negli ultimi decenni si è tenuto sottotraccia un potenziale elemento di conflitto tra visioni alimentari diverse, sottovalutando il significato che consumo, produzione e distribuzione del cibo possono avere per le diverse religioni quando si trovino a convivere (se non a competere) sul medesimo territorio», prosegue il professore. «Conflitti sociali e diversità religiose hanno così riportato in superficie una delle questioni con le quali le società multiculturali sono obbligate a confrontarsi: governare le richieste dei cittadini/fedeli di adeguare i propri comportamenti alimentari alle regole dettate in questo settore dalle confessioni religiose. Garantire a tutti questa possibilità, senza generare conflitti o forme di discriminazione, è diventata così una nuova sfida per la nostra società».
Ma la produzione e distribuzione di cibo religiosamente conforme pone oggi nuovi interrogativi alcuni dei quali di assoluta novità. Basti pensare alla predisposizione di marchi di conformità o alle implicazioni derivanti dal dibattito sulla Food safety. Produzione e commercializzazione di alimenti religiosamente certificati (halal per gli islamici o kosher per gli ebrei) possono diventare opportunità di sviluppo economico per il territorio come dimostrato da alcune aziende leader piacentine quali Copra Elior nell’ambito della predisposizione di menù etico-religiosi per le mense scolastiche e IlSole srl per la produzione di Kebab Halal.