L’immigrazione dal Corno d’Africa è un tema di cui parlano quotidianamente le cronache, anche se, nonostante la percezione comune, i maggiori flussi migratori provengono dal continente asiatico. L’Africa è caratterizzata da dinamiche tradizionali di migrazione stagionale, di esilio come arma politica, da popolazioni nomadi agropastorali. E comunque anche il continente nero ha visto crescere le migrazioni transcontinentali verso la “fortezza Europa”.
Il problema dei rifugiati e dei migranti, delle ragioni dei loro spostamenti e delle rotte della speranza che seguono è stato al centro della lezione aperta che la professoressa Federica Guazzini, dell’Università per stranieri di Perugia, ha tenuto il 24 aprile in largo Gemelli a Milano per iniziativa del dipartimento di Scienze Politiche e del corso di Storia e Istituzioni dell’Africa, tenuto dalla professoressa Beatrice Nicolini nella facoltà di Scienze politiche e sociali.
La professoressa Guazzini, dopo una lunga collaborazione con l’Università di Siena, si occupa anche dei corsi di storia del Corno d’Africa per i corpi militari italiani inviati in Somalia. Con un approccio di tipo storico, la sua ricerca indaga le cause storiche del fenomeno strutturale della migrazione, in aperto contrasto con l’approccio emergenziale delle politiche di asilo e immigrazione italiane ed europee.
Vista la violenta storia del Corno d’Africa, non sorprende come il flusso di rifugiati in fuga dalla regione sia costante da più di quarant’anni. La regione detiene infatti dei tristi record in quanto a presenza di rifugiati e di sfollati interni (Internally Displaced People). In particolar modo durante gli anni Ottanta, quando le politiche europee di asilo e immigrazione si facevano più restrittive, la metà dei rifugiati presenti nel Vecchio Continente provenivano da Somalia, Eritrea, Etiopia e Gibuti.
La storia della conflittualità della regione risale al XV secolo d.C., quando l’impero cristiano di Abissinia degli altipiani etiopici si scontrava ripetutamente con i sultanati musulmani dei bassipiani e della costa, dove la competizione economica e religiosa sfociava in quella culturale e politica. La cultura politica e l’intero processo di state-building etiope si caratterizzava per una territorialità più simile ai concetti della statualità europea che non al nomadismo diffuso nelle unità politiche confinanti. Lo stesso impero etiopico fu colonizzatore nell’Ottocento, quadruplicando il proprio territorio e sottomettendo popoli islamici estranei alla cultura Amhara.
A partire da allora, la particolare posizione di rilevanza geopolitica occupata da questi Stati ha favorito l’internazionalizzazione dei conflitti. Dalle presenze omanite, poi portoghesi, francesi, inglesi e italiane, a seguito dei conflitti mondiali si cristallizzarono le fratture regionali e restano tuttora irrisolte le dispute territoriali che riguardano praticamente tutti i confini della regione, in particolar modo intorno alla Somalia.
La mancata riunione di tutti i territori occupati da popolazioni etniche somale, governate dall’Etiopia nella regione ogadena, dal Gibuti e dal Kenya nella sua provincia nordorientale, continua dagli anni Sessanta a essere motivo di mobilitazione militare e origine di flussi di rifugiati e sfollati interni, costretti ad attraversare ripetutamente i confini internazionali in cerca di rifugio. Con il sopraggiungere degli anni Settanta sia l’Etiopia che la Somalia videro la nascita di due regimi militari altrettanto sanguinari, in risposta a dinamiche interne di frammentazione, specialmente in relazione alle aree somali contese. La presenza di rifugiati in entrambi i paesi permise di sfruttarne i malcontenti per minacciare l’ordine e la pace interna al Paese vicino, generando guerre per procura che coinvolgono tutti gli attori della regione, intrecciandosi con lo svilupparsi della trentennale guerra d’indipendenza Eritrea.
Con la Guerra fredda le dinamiche Est-Ovest si sovrapposero alle alleanze regionali, favorendo le istanze dell’Etiopia sull’Eritrea e sulla Somalia, grazie al suo storico maggiore peso nelle relazioni internazionali. I conflitti diffusi e l’enorme percentuale di sfollati e rifugiati permisero al mondo criminale e ai radicalismi di svilupparsi e attecchire nel contesto senza stato della Somalia, tra carestie e disordini politici e sociali. Mentre la Somalia scivolava nel caos delle guerre civili, le missioni militari e umanitarie della comunità internazionale furono di poco aiuto sia alla Somalia che all’Eritrea, la quale scelse la via dell’autosufficienza e dell’isolamento internazionale, né gli innumerevoli processi di pace portarono a conclusioni positive durature.
Con il crollo del muro di Berlino e la fine del sostegno sovietico alle cause antiamericane i regimi militari collassarono, aprendo la strada a nuovi conflitti per gli stessi confini. Nuove guerre per procura tramite gruppi armati di resistenza coinvolsero di nuovo Etiopia, Kenya, Gibuti, Yemen e Sudan, oltre che ovviamente la Somalia. Anche il conflitto in Darfur e la più recente secessione del Sud Sudan si sono aggiunti alle direttrici dei rifugiati.
I Paesi coinvolti tuttavia, sono anche tra i maggiori ospiti di rifugiati del continente grazie a politiche più o meno strutturate. L’Etiopia mantiene una politica di porta aperta per chi chiede asilo, ma i campi di accoglienza profughi sono tenuti sotto stretto controllo militare. A seguito degli eventi dell’11 settembre, la politica mondiale di guerra al terrore ha informato la prospettiva sul tema, sottolineando i rischi di infiltrazioni islamiste nei campi profughi. Infatti, al contrario di quanto previsto dagli standard internazionali, i campi profughi non son sono mai a distanza sufficiente dai confini internazionali, facilitando così la possibilità di reclutamento da parte dei terroristi dei cosiddetti refugee warriors.
L’interdipendenza tra i conflitti regionali e la presenza di confini porosi e incontrollabili fa sì che i migranti possano essere non solo vittime ma anche pedine proattive di cambiamenti politici: la diaspora può potenzialmente influenzare le politiche, ma può anche essere trasformata in strumento di destabilizzazione regionale. Le popolazioni somale diffuse nel Corno sono ora fra le più strumentalmente discriminate, a differenza degli Eritrei in genere più benaccetti.
Dove le istanze irredentiste sono reciproche e diffuse lungo tutti i confini, dove l’inimicizia è radicata nelle tradizioni culturali come nel Corno d’Africa, e dove la possibilità che i rifugiati siano attori politici pericolosi per l’integrità statale e lo status quo, la sicurezza nazionale diventa la scusa preferita per abusare dei poteri militari, azzerare i diritti politici e civili delle popolazioni e arroccarsi nelle strutture di potere. Pertanto, le politiche sociali per la gestione dei profughi e dei migranti, nella loro connessione con la stabilità regionale e nazionale, complicano il ruolo delle agenzie internazionali che faticano a districarsi e ad agire efficacemente. Per di più, a seguito delle cosiddette Primavere arabe, le rotte migratorie transcontinentali, che in genere passavano preferibilmente per la Libia, ora sono deviate ad Est verso il Sinai.
In tale regione non solo il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ma anche il traffico di esseri umani sono diffusi tra le attività criminali, peggiorando così la situazione già drammatica dei profughi. Come sottolineato in conclusione dalla professoressa Guazzini, dopo una rapida analisi della problematicità della storia del Corno, emerge chiaramente come un contributo positivo e propositivo possa venire dai tentativi, per quanto difficoltosi, di un dialogo inclusivo orientato alla pace. La comunità internazionale potrà solo in questa chiave giocare un ruolo anticiclico e cercare di evitare che quelle pericolose interferenze politiche regionali ripetano incessantemente la storia.