«Nel tempo dell’evaporazione del padre, nessun dio ci può salvare». Con questa affermazione, perentoria e drammatica, si chiude il nuovo libro di Massimo Recalcati, psicanalista lacaniano, che ha affidato all’editore Cortina la pubblicazione del suo ultimo saggio dal titolo Cosa resta del padre. La paternità nell’epoca ipermoderna. L’autore, che a breve terrà un insegnamento in Università Cattolica, è stato ospite nella libreria di largo Gemelli a Milano dei “Mercoledì di Vita e Pensiero”. Aurelio Mottola, direttore dell’editrice, lo ha intervistato sui punti più interessanti della sua opera, invitandolo ad affrontare un tema insieme facile da comprendere e complesso da analizzare.
L’«evaporazione del padre» è il punto di partenza per una riflessione che arriva a coinvolgere ampie aree della società moderna: il padre, simbolo della legge, è colui che, proprio ponendo dei limiti, rende possibile la scoperta del desiderio. «Se non c’è limite non ci può essere esperienza del godimento» e la scomparsa della consapevolezza della finitezza umana è strettamente correlata al dilagare del consumismo, in cui si manifesta quella che Lacan definiva «la follia più grande», cioè «credere nell’oggetto».
Il rapporto con la figura del padre ha quindi storicamente e simbolicamente un valore di ancoraggio alla realtà e di termine saldo con cui ogni uomo è costretto a confrontarsi: «È un’eredità, quella che ci lascia nostro padre, di cui dobbiamo ri-appropiarci, che dobbiamo fare nostra conquistandola. Il rifiuto dei padri – fenomeno che è avvenuto in modo diffuso e colossale nel ’68 –, così come la pedissequa emulazione, sono entrambi modi di negare l’eredità paterna, fallendo il percorso educativo».
Recalcati ha poi considerato il fenomeno della violenza giovanile, così pericolosamente diffusa e ancora una volta legata all’«evaporazione del padre»: «Senza la simbolizzazione del conflitto con il padre, che implica sempre la dimensione della parola, i ragazzi sono portati a veicolare lo scontro in modo fisico e distruttivo». La sfida cui il padre di oggi è dunque chiamato è la riconquista del proprio ruolo, nella consapevolezza della difficoltà di porsi come limite in un’epoca in cui la parola d’ordine sembra essere «Perché no?». Essere padre significa innanzitutto mettersi in grado di porgere un dono, che consiste nella «fiducia» nel proprio figlio e nella «parola», accettando il fatto che cedere la parola significa, in qualche modo, essere disposti a perderla.