di Luigi Campiglio *
La crisi iniziata nel 2008 ha origini globali e conseguenze altrettanto pervasive sui comportamenti economici delle famiglie e delle imprese: la sola esperienza storica di una analoga crisi epocale è quella degli anni Trenta, giustamente temuta e scongiurata, trascurando di ricordare che gran parte delle istituzioni su cui si è basato il grande sviluppo mondiale del dopoguerra sono nate proprio allora. La questione centrale oggi è quella di comprendere le ragioni che hanno portato all’attuale crisi, poiché l’economia mondiale si sta avventurando su terreni inesplorati per i quali non esiste un’esperienza passata simile da cui trarre indicazioni. La riflessione che segue vuole portare l’attenzione su alcuni problemi che riteniamo cruciali nell’aver causato la crisi economica in corso e dalla cui soluzione dipendono le possibilità di sviluppo futuro.
La crisi in corso si è contraddistinta, negli Stati Uniti, per un notevole aumento della disuguaglianza: è aumentata in particolare la quota di reddito a favore dell’1% di famiglie con il reddito più elevato, il cosiddetto “top 1%”. Una ricostruzione storica dei dati fiscali sui redditi americani a partire dal 1913 ha fornito indicazioni di estremo interesse sulla distribuzione del reddito e la dinamica della quota del “top 1%” che, secondo i dati più recenti, ha registrato un massimo del 23,5% del reddito totale lordo familiare nel 2007 – l’ultimo anno prima della crisi – includendo i guadagni in conto capitale, e del 18,3% escludendoli. L’aggiornamento dei dati, fra il 1998 e il 2008, ha consentito di cogliere una singolare coincidenza fra la crisi in corso e il 1928, l’anno che precede l’inizio della Grande Depressione, quando tale quota raggiunse un analogo valore massimo del 23,9%, includendo i guadagni in conto capitale, e del 19,6% escludendoli. In entrambe queste due crisi il “top 1%” delle famiglie con il reddito più elevato giunge a ricevere il 24% del reddito totale, inclusi i guadagni in conto capitale, e il 18% senza di essi: è ragionevole ipotizzare che non si tratti di una pura coincidenza, ed esista perciò un legame fra aumento della disuguaglianza e crisi economica, anche se i reciproci meccanismi di trasmissione sono oggetto di analisi e discussione.
La differenza principale fra i due anni di picco è rappresentata dal fatto che nel 1928 il 32,9% dei redditi totali proveniva da dividendi e il 28,6% da salari, mentre nel 2007 i redditi da lavoro erano saliti al 54,3% e i dividendi erano scesi al 7,5%. Nel corso degli anni Trenta, e ancora di più nel corso della Seconda guerra mondiale, la polarizzazione dei redditi diminuisce sensibilmente e, ciò che è più rilevante, la quota del “top 1%” rimane sui bassi livelli raggiunti (8-10%), così come nel corso del periodo di sviluppo che caratterizza i 30 anni successivi al dopoguerra. È dall’inizio degli anni Ottanta che la quota di reddito del “top 1%” riprende a crescere, con un’accelerazione negli anni Novanta, fino a riprodurre nel 2007 la distribuzione del 1928. Poiché negli anni Novanta l’economia americana continua a crescere in aggregato, il riflesso economico del processo di polarizzazione è che la gran parte dei guadagni di produttività e crescita – circa la metà – è andata a beneficio di una ristretta élite economica, il “top 1%”. La conseguenza è stata che il reddito della famiglia mediana, cioè quella che divide in due il totale delle famiglie ordinate in modo crescente, nel 2010 è stato di 49.445 dollari e, dopo aver registrato una continua diminuzione del potere di acquisto negli anni Novanta, è ritornato al livello di reddito reale del 1996: l’implicazione è una perdurante debolezza della domanda interna che continua a frenare le prospettive di crescita dell’economia americana. Fra il 1996 e il 2010 la quota di reddito totale del terzo quintile, cioè il 20% di famiglie che sta a cavallo del reddito mediano, è diminuita dal 15,1% al 14,6%, così come il primo e il secondo quintile: questa dinamica non è un fenomeno recente, ma ha radici fin dall’inizio degli anni Ottanta. Il quarto quintile di reddito mantiene la sua quota e il quintile più elevato registra un significativo aumento, che si accentua in misura crescente quando si consideri il 5% dei redditi più elevati (21,3% del reddito totale) e ancor più il “top 1%”, (cfr. Income, Poverty and Health Insurance Coverage in the United States: 2010, Current Population Reports del settembre 2011). Il riflesso della polarizzazione economica è un aumento della polarizzazione della vita politica americana, con la graduale scomparsa dei “moderati” e il prevalere di contrapposizioni sempre più aspre e accentuate: l’indice della polarizzazione politica si associa in modo significativo alla polarizzazione economica, misurata dalla quota di reddito del “top 1%” così come della quota di stranieri nati all’estero. La polarizzazione politica americana non ha portato a una maggiore efficienza decisionale, in particolare sui temi della politica economica, ma invece a situazioni di crescente difficoltà, che favoriscono il mantenimento dello status quo e rendono sempre più complessa l’approvazione di leggi rilevanti sul piano economico e della redistribuzione del reddito.
L’Italia, una società a somma zero
La vastità delle conseguenze economiche e sociali associate alla dinamica di reddito del “top 1%” ha promosso un’ondata di ricerche e studi in numerosi altri Paesi, anche se spesso con il limite della disponibilità di dati fiscali su un orizzonte temporale ristretto, come nel caso nell’Italia, nazione per la quale, pur con le necessarie cautele interpretative, è stato possibile condurre un’analisi sui dati fiscali per un periodo di 30 anni, dal 1974 al 2004. I risultati sono ugualmente interessanti: il “top 1%” dei redditi individuali diminuisce dal 7,4% del reddito totale nel 1974, al 6,3% nel 1983, per poi aumentare fino al 9,2% del 2004. La dinamica è simile a quella dei Paesi anglosassoni, ma su livelli inferiori, che sembrano caratterizzare i Paesi mediterranei e dell’Europa continentale. Per comprendere più a fondo la distribuzione delle risorse in Italia occorre partire dal fatto che nel corso degli ultimi dieci anni il Pil pro-capite è diminuito, così come i consumi familiari: si tratta di un “decennio perduto”, anzitutto perché la mancanza di crescita economica ha comportato che all’aumento di reddito, risparmio o consumo di qualcuno corrispondesse necessariamente una simmetrica diminuzione assoluta di qualcun altro, come per l’appunto in un gioco a somma zero. Per questo motivo le ragioni dell’equità distributiva, e quindi una precisa comprensione di chi perde e chi guadagna nella crisi in corso, hanno oggi un ruolo prioritario per qualunque proposta che riguardi la ripresa dello sviluppo. Con questo obiettivo abbiamo anzitutto condotto un’analisi sulle dichiarazioni fiscali dei redditi del Comune di Milano, utilizzando una ricostruzione dei redditi familiari, per il periodo 2000-2008 (l’elaborazione dei dati fiscali, secondo lo specifico formato richiestogli, è stata gentilmente fornita dal prof. Mario Mezzanzanica dell’Università degli Studi Milano-Bicocca): per la sua rilevanza economica, l’analisi su Milano fornisce ovviamente indicazioni significative anche a livello nazionale.
Nel 2008 il “top 1%” delle famiglie con il reddito più elevato ha registrato una rilevante diminuzione della sua quota, dal 12% del 2007 al 9,5% del 2008, plausibilmente come conseguenza dell’inizio della crisi economica (nel 2008 il Pil è diminuito dell’1,8%). Nel corso degli otto anni considerati il reddito del “top 1%” ha raggiunto tuttavia la quota ben più elevata del 14,2% nel 2001 e nel 2002, quest’ultimo essendo l’anno del changeover dell’euro: una quota del 14% del reddito familiare non è molto distante dagli analoghi valori per gli Stati Uniti, con cui è direttamente confrontabile, a differenza dei precedenti dati individuali. Se consideriamo la dinamica del reddito familiare al netto dell’inflazione, emerge che i redditi reali hanno cominciato a diminuire già a partire dal 2007 e, se consideriamo il periodo 2000-2008, risulta che fino al 7° decile, cioè per il 70% delle famiglie, il reddito reale è diminuito, mentre è aumentato, anche se di poco, per i decili più alti. In questo quadro è necessario tenere conto che una delle fonti di disuguaglianza economica è data dalla differente incidenza fra famiglie monoreddito e bireddito e dal grado di correlazione dei redditi di ciascun componente della coppia familiare nel ciclo economico. Il rapporto dei redditi familiari medi del “top 1%” e del 50° percentile, cioè il reddito mediano, è molto volatile e ha registrato un valore massimo di 24 nel 2001 e un valore minimo di 12 nel 2003: il reddito medio del “top 1%” è stato circa 90 volte più elevato di quello del 10° percentile, quello cioè con un più basso livello di reddito familiare.
Se consideriamo un’altra consolidata fonte informativa sui redditi, l’indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie, la quota di reddito del “top 1%” è di molto inferiore rispetto alle stime precedenti ed è plausibile pensare che ciò rispecchi una sistematica sottostima dell’indagine campionaria: la dinamica temporale e i rapporti fra i decili di reddito conservano tuttavia una coerenza con i risultati precedenti. In particolare il reddito medio reale delle famiglie, cioè al netto dell’inflazione (e al netto degli affitti imputati), rimane in media invariato fra il 2000 e il 2008, ma registra invece una diminuzione per i due quintili intermedi di famiglie e un lieve aumento per i quintili più bassi e più alti. Circa il 40% di famiglie con redditi medi ha quindi registrato una diminuzione del proprio potere di acquisto. Un’ulteriore informazione interessante che questa indagine offre è rappresentata dalla possibilità di individuare le fonti di reddito, oltre che stimare la propensione al risparmio per decili di reddito. Per quanto riguarda le fonti di reddito la caratteristica centrale del decile di reddito familiare più elevato, il 10°, è rappresentata dalla quota particolarmente elevata del “reddito netto da lavoro autonomo”: per il lavoratore autonomo il prezzo del bene o del servizio coincide in gran parte con il suo reddito, con la cruciale differenza – rispetto al reddito da lavoro dipendente – di un potere immediato di aggiustamento dei prezzi. Per il 10° decile questa fonte di reddito ha rappresentato una quota crescente, dal 27,5% del reddito totale nel 2000, fino al 37% nel 2006, per diminuire poi al 17,9% con la crisi del 2008: nel 10° decile è altresì elevata e crescente la quota crescente di redditi da trasferimenti (in particolare pensioni), il 21,1% del reddito familiare nel 2008.
Per quanto riguarda la propensione al risparmio va sottolineato come in modo consistente la propensione al risparmio del 20% delle famiglie con reddito più basso – i primi due decili – sia negativa, cioè i redditi sono inferiori ai consumi: per comprendere meglio questa apparente anomalia abbiamo ricalcolato la propensione al risparmio solo con riferimento ai consumi non durevoli, il che tuttavia conferma il precedente risultato, riducendo solo di poco il risparmio negativo. L’anomalia del risparmio negativo ai bassi livelli di reddito non è un fenomeno solo italiano, ma emerge anche dall’indagine sui consumi negli Stati Uniti: è evidente che questa indicazione segnala uno squilibrio economico esistente prima di eventuali interventi compensativi, sia nell’ambito della rete familiare di appartenenza, sia da parte di organizzazioni di solidarietà. Il problema comunque rimane, poiché la propensione media aggregata al risparmio delle famiglie è in costante diminuzione nel corso degli ultimi dieci anni, il che segnala, più di altri indicatori, una polarizzazione della società italiana. Infatti mentre il 20% delle famiglie con reddito più basso registra un risparmio negativo, il 20% delle famiglie con un reddito più elevato riesce a risparmiare circa la metà del reddito guadagnato. In altre parole, la più elevata capacità di risparmio consente una maggiore discrezionalità, ovvero una maggiore libertà di scelta, nelle decisioni di spesa per il consumo.
Libertà di scelta e libertà di una vita civile
Proponiamo una nuova misura del tenore di vita e della disuguaglianza, a partire dal concetto di costo quasi-fisso del vivere civile, cioè quelle categoria di spese che una famiglia deve sostenere per vivere una vita civile in un Paese come l’Italia: possiamo immaginare cioè un processo decisionale di spesa su due stadi in cui nel primo stadio si allocano le categorie di spesa quasi-fisse e non discrezionali, mentre nel secondo stadio si decidono le categorie di spesa in base alle preferenze, i bisogni e le priorità dei componenti della famiglia. La categoria dei costi quasi-fissi include beni e servizi quali la casa – per le spese di affitto, interessi sul mutuo, manutenzione, riscaldamento, acqua, luce, gas – i beni alimentari e le spese di trasporto necessarie per andare e tornare dal posto di lavoro. La percentuale di consumo che residua può essere considerata una misura della libertà di scelta della famiglia, così come i costi quasi-fissi del vivere civile rappresentano una categoria di beni che potrebbe rientrare nei primary goods di John Rawls e al tempo stesso ben esemplificare l’idea di “capacità” di essere o fare, proposta da Amartya Sen, dal punto di vista dei beni che consentono certi “funzionamenti”.
La frequenza di acquisto di determinati beni e servizi rappresenta una ragionevole approssimazione della libertà di scelta, perché maggiore è la frequenza di spesa – come accade appunto per le spese di affitto, utilities, beni alimentari, trasporti – minore è il grado di sostituibilità, specialmente nel breve periodo. Ciò suggerisce che i beni a elevata frequenza di acquisto meglio rappresentino il tasso di inflazione, così come registrato, e non solo percepito, dai consumatori. I beni a media frequenza di acquisto sono caratterizzati da un elevato contenuto di lavoro, poiché si tratta tipicamente di servizi alla persona, come l’istruzione o i servizi sanitari. I beni a bassa frequenza di acquisto includono tipicamente beni durevoli per i quali è maggiore l’aumento di produttività e qualità, come le autovetture, gli elettrodomestici, i televisori, i computer, i telefoni cellulari e di conseguenza si tratta di beni il cui prezzo assoluto non incorpora i miglioramenti qualitativi, mentre il prezzo relativo è in tendenziale diminuzione.
Questo quadro teorico appare interessante perché si collega in modo diretto alle rilevazioni ufficiali e consente di utilizzare il sistema di rilevazioni esistenti. In concreto, il tasso d’inflazione per i beni ad alta frequenza di acquisto è stato, fra il 1999 e il 2009, del +31,9%, per i beni a media frequenza del +25,2% e per i beni a bassa frequenza del +13,4%: il differenziale è quindi elevato e di conseguenza il tenore di vita e il grado di disuguaglianza delle famiglie è influenzato in modo sostanziale dalla composizione di spesa fra le tre categorie di beni. Le quantità domandate dalle famiglie consumatrici rispondono in modo differente ai diversi tassi d’inflazione, tenuto conto della diversa composizione dei panieri di spesa: nel 2009 il 1° decile di famiglie consumatrici spende il 56% in beni ad alta frequenza, il 37% in beni a media frequenza e il 7% in beni a bassa frequenza; le corrispondenti quote per le famiglie del 10° decile sono invece 27%, 35% e 37%. Le implicazioni di queste differenti dinamiche sono molteplici e quella forse più immediata e comprensibile è che il tasso d’inflazione delle famiglie consumatrici del 1° decile è del +28%, con un risparmio negativo, mentre il tasso di inflazione per le famiglie del 10° decile è del +21%, con una capacità di risparmio pari al 50% del reddito. La questione della disuguaglianza e della misurazione del tenore di vita diventa di più complessa definizione, ma con il beneficio di una quantificazione molto più accurata di chi guadagna e chi perde nel corso della crisi e del cambiamento che l’accompagna.
Dunque, la crisi economica mondiale si associa a un aumento delle disuguaglianze economiche e sociali, di cui la recente analisi storica ha consentito di chiarire meglio i nessi di causalità e in particolare il ruolo cruciale dell’élite economica delle famiglie che costituiscono il “top 1%” nella distribuzione del reddito. Lo squilibrio economico, causato dalla ricomposizione fra struttura della domanda e dell’offerta di beni e servizi, si accompagna spesso a una polarizzazione politica che rispecchia sia orientamenti sociali sia soprattutto l’influenza delle élite economiche. Lo squilibrio economico prende la forma di una polarizzazione che tende a restringere lo spazio economico dei ceti medi. L’esperienza storica indica tuttavia con chiarezza come lo sviluppo economico dipende da un’estensione della democrazia economica e politica, che rispecchi obiettivi comuni e valori condivisi, mentre i periodi di prosperità e rinascita sono caratterizzati da forti convergenze comuni, capaci di superare le tendenza alla polarizzazione economica e la radicalizzazione politica.
* docente di Politica economica - Università Cattolica del Sacro Cuore