«Che questa persecuzione contro i cristiani, che il mondo cerca di nascondere, finisca e ci sia la pace». È questo l’appello di Papa Francesco che, al termine dell’Angelus di domenica scorsa, ha voluto lanciare un messaggio forte e deciso a sostegno di tutti i cristiani perseguitati nel mondo. Una piaga secolare, radicata in molti paesi, difficile da combattere. Il primo modo per farlo è quello di non dimenticare, di portare avanti la memoria delle vittime di genocidi e persecuzioni di massa, sia quelli più conosciuti, come quello armeno, che quelli meno noti, come quello degli assiro-caldei-siriaci.
Un popolo a lungo dimenticato, ma che oggi viene riscoperto dal professor Joseph Yacoub, che giovedì 19 marzo alle 15 presenterà in Università Cattolica (aula Negri da Oleggio, largo Gemelli 1, Milano) il suo ultimo volume, Qui s’en souviendra? 1915: le génocide assyro-chaldéo-syriaque.
Al convegno Cristiani in Iraq (1915-2015): la convivenza, patrimonio di civiltà interverranno il cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, il sottosegretario agli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Mario Giro e il direttore di Avvenire Marco Tarquinio. Un appuntamento introdotto dal professor Agostino Giovagnoli (nella foto sotto), che ha profondamente a cuore il destino di questi popoli.
Nel 2015 verrà commemorato il 100esimo anniversario del genocidio armeno. Un secolo fa venne perpetrato un altro massacro, quello ai danni degli assiro-caldei-siriaci. Dove affonda le sue radici questo popolo? «Si tratta di una comunità cristiana molto antica, in continuità con quella apostolica primitiva, residente nell’Anatolia orientale. I caldei furono parte integrante del genocidio armeno, in quella “campagna” di eliminazione delle minoranze cristiane. Oggi gli assiri abitano principalmente la regione dei monasteri antichi del Tur Abdin. La comunità è presente anche in Siria e in Iraq, dove la situazione è sempre più difficile e le persecuzioni sempre più crudeli».
Perché la tragedia degli assiri è meno nota rispetto a quella degli armeni? Esiste una sorta di gerarchia della sofferenza? «Innanzitutto si tratta di una differenza quantitativa. Nel genocidio armeno si parla di 1 milione e mezzo di vittime, mentre la comunità caldea era meno numerosa. Gli armeni inoltre non possiedono solo una profonda identità cristiana, ma anche etnica e nazionale. Anche prima del 1915, infatti, tentarono più volte di creare uno stato nazionale, originando il conflitto politico con la Turchia. I Caldei vennero coinvolti, ma sostanzialmente non è mai esistita un’identità politica caldea o alcun tentativo di creazione di uno stato».
Erdogan ha più volte negato il genocidio armeno e quello assiro. Come combattere il negazionismo? «In Turchia il tentativo di ridimensionare questi eventi è forte. Oggi però la società turca si dimostra molto vivace, nonostante il forte potere politico tenti di respingere, anche con la forza, tutte le istanze pluraliste. In realtà una componente pluralista è sempre rimasta costante. Lo rivelano i curdi: se un secolo fa erano spesso complici di questi massacri a causa della loro indifferenza verso le minoranze, oggi gli stessi curdi si sentono minacciati e diventano dei protettori».
Oggi assistiamo a una rinascita. In Occidente sono state erette parecchie steli da parte dei discendenti dei sopravvissuti dei genocidi per perpetuare la loro memoria. «Il libro di Yacoub è proprio il segno di questa rinascita. Raccontare significa non dimenticare. È necessario diffondere questa realtà, è un dovere nei confronti delle vittime di ieri e di oggi. Sapere aiuta a sviluppare e difendere l’idea di convivenza multireligiosa e multiculturale, l’unica possibilità per un futuro di pace».
Boko Haram e Isis, Pakistan e Corea. Termini e luoghi che rimandano alle persecuzioni cristiane in tutto il mondo. Cosa è cambiato in questi decenni? «La differenza principale tra ieri e oggi sta nei motivi della persecuzione. Il genocidio armeno era legato alla costruzione dello stato nazionale e contrapponeva laici contro credenti. Oggi invece Isis e Boko Haram portano avanti le persecuzioni in nome dell’Islam: chi uccide, lo fa appellandosi all’integralismo islamico. Esistono però anche tratti comuni nel tempo. La disgregazione dell’impero ottomano ha messo fine a una lunga tradizione di convivenza, alla capacità di vivere fianco a fianco di cristiani, ortodossi, ebrei, minoranze di vario tipo. Questa area di convivenza, composta da Libano, Siria, Turchia orientale, si è modificata; è prevalsa una logica di omogeneità, per cui esistono zone dedicate solo agli sciiti, solo ai curdi».
Cosa possiamo aspettarci dal futuro? «Dobbiamo ricostruire le condizioni di convivenza. Proprio Yacoub ha fatto una proposta interessante, quella di considerare il pluralismo culturale e religioso patrimonio dell’Unesco, quindi da tutelare. È un’affermazione del fatto che le culture devono saper vivere insieme e bisogna costruire forme di convivenza».