«Pronuncia sempre con riverenza questo nome – maestro – che dopo quello di padre, è il più nobile, il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo». Parole di De Amicis, che permettono di capire quanto sia cambiata oggi questa professione, che sembra aver perso quell’aura che consentiva l’acquisizione di rispetto sociale dal bambino, dalla famiglia. Il 10 ottobre un sistema quadriennale ben rodato lascia il posto al nuovo ordinamento quinquennale con test d’ingresso più severi rispetto agli scorsi anni, che prevedono ottanta domande con una soglia minima per l’ingresso di sessanta risposte positive. Una svolta che arriva in un delicatissimo momento di crisi che presenta un futuro poco chiaro, anche per i passaggi riguardanti la formazione pratica, ancora incerti.
Al convegno organizzato dalla facoltà di Scienze della formazione, grazie alla fruttuosa collaborazione tra l’Università Cattolica e la Bicocca, sono emersi i nodi e le criticità di questa transizione. C’è un problema, innanzitutto, di riconoscimento sociale del ruolo del maestro che, insieme alla ristrette prospettive retributive, allontana dall’insegnamento studenti con una preparazione di base più solida, come ha sottolineato la professoressa Milena Santerini. Scatta, immediatamente, la questione del reclutamento: «I giovani più preparati - aggiunge la pedagogista - stanno fuggendo dalla scuola: non si tratta solo della famigerata fuga di cervelli, ma anche di una fuga di insegnanti, fondamentali per la formazione del Paese». Dello stesso avviso Luca Volontè, che ha puntato l’attenzione sul profilo professionale dei maestri: «Il precariato non è il problema, è uno dei problemi. Il metodo del reclutamento va infatti rinnovato. Come si entra nel mondo della scuola dopo la laurea? Su questo punto c’è una incertezza normativa che va risolta».
A questo proposito un dato positivo c’è: «Gli studenti - afferma Silvia Kanizsa della Bicocca - sono convinti che non ci sarà lavoro per loro. In media si tratta di persone con estrazione sociale modesta, con un voto di maturità non molto alto, fortemente motivate da un punto di vista umano. Chiedere cinque anni di investimento universitario richiede delle risposte perlomeno precise alla domanda: dove arriverò dopo la laurea? Tuttavia, al di là delle nebulose della normativa, il dato certo è che tutti i nostri laureati, dopo una media di 4 mesi, risultano assunti. Questo anche perché la maggior parte degli studenti è in grado di compiere salti qualitativi enormi. Pur partendo da basi modeste, alla fine del corso di laurea ci troviamo di fronte a dei giovani che sono pronti per essere dei buoni maestri». Certo i problemi di reclutamento restano il focus dell’attenzione generale, dato il calo di iscrizioni, un test d’ingresso non particolarmente agevole e il sentimento generale di un lavoro considerato ormai socialmente squalificato.
A questi problemi, vanno ad aggiungersi le questioni sollevate dalla pedagogista della Bicocca in risposta alle tante domande emerse, da più parti: chi mandiamo in classe? Qual è il maestro che vogliamo formare? È lo stesso del quadriennio o cambia con il quinquennio? La professoressa Kanizsa ha fatto notare innanzitutto che nel precedente ordinamento dopo due anni di corso si chiedeva di scegliere il tipo di abilitazione, per l’infanzia o primaria: una scelta ritenuta necessaria per le ovvie differenze di approccio alle materie. Oggi dopo cinque anni si avranno entrambe le abilitazioni senza necessità di scelta. In secondo luogo, nel nuovo ordinamento non sono previsti crediti facoltativi, il che non permetterà la creazione di esperienze differenti, che fino a oggi hanno dato buoni frutti nel confronto tra maestri, anche nell’ambito del tirocinio. Un rilievo che finora non ha avuto risposte da parte del Ministero.
Altro punto nodale, per il quale non si hanno risposte, è quello dei “casi problematici”, ovvero quegli studenti che nel corso dello svolgimento del tirocinio dimostrano di non avere quell’equilibrio psichico necessario per poter insegnare a dei bambini o che risultano essere fragili e bisognosi di percorsi differenti rispetto allo standard. Come ricordato da Lenoci: «I guasti sono pochi ma possono risultare rilevanti. La responsabilità spetterebbe all’Università alla quale però non vengono consegnati i mezzi per bloccare l’abilitazione di questi soggetti. Essere buonisti e indulgenti non serve alla scuola, bisogna creare persone ben preparate sotto tutti i punti di vista e in questo senso il tirocinio sarà sempre più fondamentale».