di Roberto Cicala *
«Si passano le stagioni / a scavare il tronco di un albero / per preparare la piroga / su cui c’imbarcheremo in autunno» ha ipotizzato uno degli ultimi grandi poeti del Novecento, Luciano Erba. Eppure ci ha lasciato in estate, il 3 agosto scorso, senza aspettare né l’autunno né il suo ottantantottesimo compleanno per l’ultimo viaggio di Tranviere metafisico, titolo autobiografico di un suo libro azzurrino da tenere ancora sul comodino: «Ritorna a volte il sogno in cui mi avviene / di manovrare un tram senza rotaie … / Al risveglio rispunta il dubbio antico / se questa vita non sia evento del caso / e il nostro solo un povero monologo / di domande e risposte fatte in casa».
Le sue perplessità, la sua cultura raffinata e la sua voglia di trascendenza nella quotidianità e «nella terra di mezzo» sono non soltanto un ricordo del suo lirico understatement ma una lezione. E un’eredità; come l’avversione alla retorica e l’ironia di «impreparato, ma sì, alla vita…» «con gli occhi ancora sprovveduti / di quando in ritardo andavo a scuola».
Per gli ottant’anni era tornato fra i chiostri di largo Gemelli festeggiato con affetto da moltissimi, in un incontro presentato da Giuseppe Langella; tra i presenti Eco, Segre, Raboni, Valduga, Merini e altri degli 80 poeti contemporanei che gli avevano dedicato altrettante poesie in una plaquette con quel titolo divenuta oggi una rarità. La Cattolica per Erba significava tutto, fin dalla laurea con Mario Apollonio a cavallo della guerra su Magalotti: «una cultura scientifica e barocca che mi affascinava». Era stato anche allievo di Contini a Friburgo, dov’era fuggito per non aderire alla Repubblica di Salò, poi correttore al “Corriere” e corrispondente di un’agenzia americana. Era tornato in ateneo da assistente nel ’53, quindi incaricato di letteratura francese e, dopo una parentesi negli Usa, ordinario fino al ’97. Per mezzo secolo è stato professore e nello stesso tempo poeta, da Linea K del’51 all’“Oscar” Mondatori delle Poesie del 2002. «Cerco e non trovo» diceva con le parole dell’amato Rebora. Da traduttore prediligeva gli autori francesi e resta un modello la sua versione del capolavoro seicentesco di Cyrano de Bergerac. Un quaderno inedito rivela che il ventenne Luciano, classe 1922, già rincorreva tra le case di Milano «rotaie [...] vuote di ruote» e di quegli anni da studente ricordava le visite al filosofo monsignor Olgiati nello studio in Arcivescovado, «circondato dai suoi numerosi gatti e da infiniti libri» (lo stesso poteva dirsi di casa sua): l’ha ricordato anni fa in una bella intervista di Emanuela Gazzotti su "Presenza", con la «guida imperiosa» di padre Gemelli e le sciate in val Senales con Lazzati, che assisteva nella redazione dell’“Italia giovanile” con l’entusiasmo di quando, anziano, scriverà: «Interroghi l’alfabeto delle cose / ma al tuo non capire niente di ogni sera / sai la risposta di un mazzo di rose?»
La sua vocazione allo sguardo coglieva particolari apparentemente insignificanti come metafore sulla vita, segni cui aggrappare il bisogno di certezze e fede, quasi un itinerarium ad Deum per absurdum. Ma la sua poesia domestica era capace, come i suoi gatti, di graffiare: «Di profilo ha la faccia da fesso / di faccia il profilo è lo stesso» (Tuttologo in tv).
Infine, quando il cielo sta per oscurarsi, questo tranviere metafisico riformula una domanda antica: «ed io, io, ospite di quale sera?», lasciandoci la consapevolezza che gli interrogativi spesso servono più delle risposte. Così, quando scopre che «il binario da prendere era un altro», trova parole che restano per sempre lo specchio della nostra anima: «oggi sono tornato / sono tornato lontano troppo lontano».
* Docente di Editoria libraria e multimediale in Cattolica e direttore editoriale di Interlinea, ha collaborato con Luciano Erba ad alcune iniziative letterarie