di Annamaria Di Cesare e Annagloria Palazzo *
Dopo 12 ore di volo atterriamo a Dar Es Salaam: è qui che, insieme al nostro autista Edwin e ad altri 3 medici volontari, inizia il nostro viaggio di due giorni alla volta di Ikonda, a ben 800 km di distanza.
È strano quanto qui, più che altrove, il paesaggio cambi continuamente, dal traffico caotico di Dar pieno di camion, dala-dala e bajaj (rispettivamente i tipici pulmini e taxi), alla savana del parco di Mikumi (dove le giraffe e le zebre ci attraversano tranquillamente la strada), passando per la meravigliosa valle dei baobab, fino ad arrivare alla ventosa città di Iringa, dove sostiamo a dormire dai Missionari della Consolata.
Al mattino il viaggio ricomincia e la visuale si arricchisce delle immense piantagioni verdi di tè e di pini, la cui estensione si perde a vista d’occhio. Arrivati a Njombe lasciamo definitivamente la strada asfaltata per quella di terra rossa e polvere, e raggiungiamo finalmente, nelle ultime interminabili ore di viaggio, il complesso del Consolata Ikonda Hospital. Ad accoglierci ci sono padre Sandro, fratel Gianfranco, Manuela, Carmen, Pietro, Virginia e Gianpaolo, con una festa di benvenuto. Molti di loro hanno deciso di dedicarsi completamente a quest’ospedale e vivono stabilmente qui.
L’indomani inizia la nostra avventura in ospedale, uno dei più occidentalizzati della Tanzania, con più di 300 posti letto divisi tra medicina uomini, medicina donne, chirurgia, pediatria, ortopedia, maternità e reparto solventi. Iniziamo il giro visite nel reparto male ward (medicina uomini) e già dalla prima stanza si comprende bene qual è il vero male che affligge questa popolazione: l’Aids e tutte le sue comorbidità. I medici locali ci informano che le aree circostanti, Mbeya e Iringa, sono le regioni più colpite della Tanzania: 1 persona su 7 è sieropositiva.
Durante la prima settimana, collaboriamo con Gianpaolo, medico italiano, l’unico a gestire i 70 letti del reparto del male ward. Nonostante il suo carico di lavoro, non si è mai risparmiato e ci ha insegnato molto mentre lo accompagnavamo durante il giro visite, ha sempre preso considerazione le nostre intuizioni e ci ha reso partecipi dell’iter diagnostico: finalmente ci siamo sentite realmente utili e dei futuri medici.
Per quanto le cure verso i pazienti siano delle migliori però, la maggior parte di loro arriva già in pessime condizioni, e spesso le uniche cose da poter fare con i mezzi a disposizione, sono sostegno e terapie empiriche contro i principali agenti infettivi.
Dopo una settimana di continue perdite di pazienti affetti da Aids, passiamo a vedere la vita nascere al reparto di Maternity ward: qui accompagniamo il medico volontario ginecologo, Giovanni, nelle visite e in sala operatoria, dove ci lascia assistere agli interventi iniziandoci anche alla chirurgia.
L’ultima settimana infine facciamo una rotazione tra i reparti restanti per avere una visione ancora più generale del quadro sanitario africano. Lì ci rapportiamo con diversi medici locali, molto cordiali e pronti a condividere con noi nozioni mediche ma anche e soprattutto la propria cultura e le proprie usanze. In questa settimana collaboriamo con un altro medico, Marco, cardiologo italiano, che si dedica con passione ogni anno, per un mese, all’insegnamento della gestione dei più diversi pazienti cardiologici ai “clinical officers”, medici addetti alle ammissioni dei pazienti in ospedale.
Con la massima disponibilità, anche lui ci ha aggiunte alla sua schiera di alunni tramandandoci i “trucchi del mestiere”, quella semeiotica che quando sei in Africa senza tutti i macchinari avanzati e costosi a cui siamo abituati, riesce a salvare vite.
Ikonda ci ha lasciato molto a livello professionale ma anche e soprattutto umano: qui abbiamo imparato che se si ha un intento comune, e tanta passione, anche un obiettivo così difficile come quello di costruire, e gestire un ospedale, non è poi così lontano, così come fanno padre Sandro, Manuela e fratel Gianfranco ogni giorno.
Siamo riuscite a mettere in pratica e a rafforzare tante nozioni che altrimenti sarebbero rimaste solo teoriche, su patologie ormai quasi scomparse alle nostre latitudini. Abbiamo sperimentato che quando arriva un paziente, anche se è nelle peggiori condizioni e ti verrebbe spontaneo pensare che non ci sia più nulla da fare, devi sempre provarci, e dare il massimo perché quella vita continui.
Ma forse, come sempre accade, chi ci ha insegnato di più sono i pazienti, e il popolo tanzaniano in generale, sempre sorridente e grato per quello che ha e riceve. E noi, dal canto nostro, siamo immensamente grate per la splendida esperienza che Ikonda ha significato per noi.
* Annamaria Di Cesare, 23 anni, di L'Aquila, Annagloria Palazzo, 23 anni, di Lecce, sesto anno della facoltà di Medicina e Chirurgia, sede di Roma