di Emily Ceron *

Emily con alcuni bambini etiopiQuando sono rientrata tutti mi chiedevano: «Allora? Come è andata? Raccontaci tutto». Ma io non ci riuscivo. Non avevo parole. Non sapevo da dove cominciare. Tornare alla quotidianità per me è stato uno shock. Non riuscivo a togliermi dalla testa tutte quelle facce di bambini che non hanno altro da mettersi se non un paio di scarpe e una maglietta da indossare tutti i giorni. Quando torni, apri il tuo armadio e vedi tutta quella “roba” alla fin fine inutile, ti chiedi il perché.

Provo a raccontare una storia per cercare di spiegarmi. È la storia di Fekerte, una bambina cieca di sette anni, di cui si prendono cura le suore. Quando non va a scuola sta con la mamma che la porta a chiedere l’elemosina, perché la sua condizione intenerisce di più le persone e garantisce più guadagni.

Un sabato con suor Sandra siamo andate a cercare Fekerte, perché ormai l’anno scolastico era cominciato ed era ora che anche lei tornasse al villaggio dove le suore hanno la scuola per ciechi e sordomuti. Abbiamo fatto un bel giro in macchina alla ricerca di questa bambina. Siamo andate a cercarla a casa della mamma, a casa della zia, ma non c’era. Siamo andate nelle chiese dove di solito chiede l’elemosina, ma non era nemmeno qui. Dopo tanto girare, abbiamo saputo che era andata a piedi con la mamma in un villaggio distante. Siamo andate li e, dopo tanto aspettare, l’abbiamo trovata.

É stato emozionantissimo vederla salire in macchina. Faccio fatica a descrivere l’incontro tra la lei e la religiosa. Quando Fekerte sentiva la voce di suor Sandra, toccava il cruscotto e i sedili della macchina in cerca di lei. Suor Sandra l’ha presa e l’ha aiutata a salire in auto, e lei, come un piccolo uccellino, si é raggomitolata tra le sue braccia. E si parlavano. Io non capivo una parola di quello che si dicevano, ma ho sentito un’emozione tale che le lacrime mi scendevano senza che me ne accorgessi. L’amore e allo stesso tempo la tragedia che sentivo in quella scena era una cosa che ancora oggi mi colpisce e mi emoziona.

Mi veniva da piangere: non sapevo se era per la tenerezza che mi faceva la bambina cieca in cerca di riparo nelle braccia della suora. Oppure per la scena delle due che si erano ritrovate e si abbracciavano. Non sapevo se piangevo per la tristezza immensa di vedere quella bambina bellissima che non vedeva. E mi chiedevo come Dio potesse permettere tali cose. Perché io sono tanto fortunata da avere tutto ciò che voglio, mentre ci sono altri che si svegliano senza la certezza di aver qualcosa da mangiare o senza la possibilità di vedere?

Siamo andate a comprare scarpe e vestiti per questa bambina. Ho guardato quando glieli mettevano o quando le provavano i vestiti: se li toccava, la suora le parlava e lei rispondeva. Una scena fortissima, indescrivibile. Anche perché è una storia, simile ad altre, di bambini abbandonati dalla madre e dal padre, che soffrono in silenzio, eppure, non sai come, sono sempre felici pur essendo poverissimi.

Vengono da te, ti abbracciano e ti tengono la mano fino a non poterne più. Dopo un po’ non ce la fai davvero più. Ma poi capisci perché fanno così: sono bambini che, essendo abbandonati o orfani, hanno tanto bisogno di attenzione. Quando c’é qualcuno che rivolge loro un piccolo sguardo o che dà loro qualcosina come un palloncino, cercano tutta l’attenzione che non hanno mai avuto. Tutto l’amore che puoi dare loro, lo vogliono, lo richiedono e non si stancano mai di averti vicino. Andrebbero ovunque tu vai. Alla fine ti adottano come genitore e ti scrivono biglietti, dicendo che ti amano.

Sono state solo tre settimane e ho lasciato dei ricordi: parole insegnate in italiano o imparate nella loro lingua, modi di fare, gesti, passi di danza o canzoni. Un vero e proprio interscambio culturale tra persone che, pur appartenendo a realtà completamente diverse e opposte, alla fine diventano amici. Qualcosa che potrebbe sembrare impossibile.

Poi, all’addio, sono tutti tristi perché te ne vai. Il destino é crudele. E noi ritorniamo alla nostra vita comoda e felice. Non riesco a togliermi dalla testa tutte quelle facce che mi guardano, e mi chiedo: chissà cosa pensano? Posso solo testimoniare, da parte mia, che, da quando sono rientrata, non sono più la stessa.


* 18 anni, di Siena, primo anno del corso in inglese Medicine and Surgery, facoltà di Medicina e chirurgia, sede di Roma