di Rachele Orlandi *
Una volta qualcuno ha detto: “Viaggiare è l’unica cosa che compri che ti rende più ricco”. Penso proprio si riferisse all’arricchimento vero, autentico, stupefacente: l’arricchimento dell’anima.
L’esperienza a Nyabula non è stata il mio primo viaggio all’estero, è vero; ma per la prima volta credo di aver sperimentato veramente il viaggiare inteso non solo come salire su un aereo, bensì come perdita dei propri confini, dei propri punti di riferimento e delle proprie convinzioni. Un viaggiare che porta quindi al decentramento e all’empatia - considerate due competenze chiave per l’educazione interculturale - al senso critico e alla riflessività, sia sulla nostra provenienza, sia sul dove ci troviamo ora, sia sul dove vorremo trovarci in un futuro. Un viaggiare che accompagna, fisicamente e spiritualmente, a essere assorbito in un’altra dimensione, tra paesaggi naturali che riempiono il cuore e sorrisi sinceri che disarmano.
L’«educatore disarmato». Le attuali teorie della pedagogia sociale abbracciano questa idea, così come l’idea di approcci educativi basati sui punti di forza e di bellezza, presenti inevitabilmente in ognuno delle persone che incontriamo nel nostro cammino.
Educatori disarmati, educatori senza frontiere, educatori alla ricerca del bello.
Il nostro compito, il compito di noi educatori, è partire da lì, per poi spiegare le vele verso le potenzialità offerte dal futuro. E quando il futuro sembra non promettere nulla di buono? Quando le condizioni sociali o economiche di una famiglia, di un villaggio, di un Paese sono, diciamo così ancora in fase di “lavori in corso”?
L’approccio pedagogico alla realtà è, per definizione, fiducioso, speranzoso, e orientato al futuro. È necessario accelerare i tempi di questi lavori, sia che si tratti di aiuto economico sia, soprattutto, di lavoro sociale, sul campo in prima persona. Non esiste azione educativa efficace che non costruisca le sue basi e il suo futuro sulla relazione autentica, qui e ora, io e te.
Elisa e io abbiamo deciso di attribuire questo senso e questo significato alla nostra esperienza a Nyabula, dove ogni bambino che partecipava alle nostre lezioni di inglese, ogni bambino che veniva impaziente a bussarci alla finestra della camera, ogni singola persona con i suoi sguardi, gesti e sorrisi ha costituito un elemento insostituibile della “nostra” Africa.
Tutti hanno contribuito alla costruzione della “nostra” Africa, ma proprio tutti, dai missionari, che hanno dedicato un’intera vita all’«Altro», a Baba Emilio Kindole, che ci ha accolto a casa sua come figlie, a Silvio, che insieme alla sua associazione “Asante Africa” sta finanziando la costruzione di pozzi d’acqua a Nyabula, a Giusy, la cui determinazione sarà sempre esempio per me.
“Nyabula amani na upendo”. Significa “Nyabula pace e amore”. Pace e amore sono le parole d’ordine nel villaggio.
E questa è la lettera che Elisa e io abbiamo scritto a Baba Emilio prima di salutarlo:
Life is simple. Open your arms, mind and heart to new things, new people. We are united in our difference. Travel often, getting lost will help you to find yourself.
Some opportunities only come once, seize them.
Life is about people you meet and what you create with them, so go out and start creating”.
When we’ve arrived, we would have never thought to find such a great family.
Today, for us, Nyabule is a place full of emotions: it’s the place in which we’ve found new people to whom we are united in our difference.
Today, Nyabula is our Africa.
* 22 anni, originaria della provincia di Brescia, studentessa al terzo anno di Laurea Triennale in Scienze dell’educazione e della formazione della facoltà di Scienze della formazione.
TANZANIA
Nyabula, la nostra Africa
Nella polvere del villaggio africano abbiamo sperimentato che le teorie pedagogiche si possono tradurre nella realtà. Da “educatori disarmati” abbiamo cercato di lavorare sulla speranza e sulla costruzione di una relazione autentica con l’altro