di Ji Jade King *
Sono riluttante a scrivere della mia esperienza. Non perché non abbia voglia, ma perché non so se possiate capire senza vedere il mio sorriso. È proprio questo che porterò sempre con me: una gioia che avevo dimenticato o mai conosciuto. Quella che mi ha insegnato il meraviglioso popolo ugandese, con i suoi sorrisi, le sue danze, i suoi colori.
Era la mia prima volta in in terra africana e la mia prima esperienza di tirocinio al di fuori dell’università. Potete immaginare le aspettative e le incertezze con cui sono partita, la paura di non essere all’altezza e l’eccitazione. Eppure è bastato un giorno per trovarmi a mio agio e dopo una settimana mi sembrava di vivere al Benedict Medical Center (Bmc) da mesi grazie all’incredibile ospitalità del popolo ugandese.
Dal punto di vista prettamente medico, il mio lavoro sicuramente non ha salvato nessuna vita in termini pratici, ma non è questo che bisogna aspettarsi ed è giusto correggere il punto di vista con cui spesso si tende a partire per un viaggio del genere, poiché dopotutto siamo solo dei giovani studenti che non hanno ancora acquisito le sufficienti competenze per pretendere un simile compito.
Quello che si riesce a comprendere solo a posteriori è che in Africa è possibile fare la differenza con molto meno. Ciò significa che anche quando non si è in grado di operare un paziente perché sono terminate le garze sterili o non si ha la disponibilità farmacologica del trattamento necessario o semplicemente il paziente non può permetterseli, in questi casi non importa se siete primari di un ospedale d’eccellenza o timidi studenti impacciati con le siringhe, non importa se il vostro compito è quello di tagliare le garze o tenere la mano di un paziente impaurito, l’importante è lavorare in un team che abbia come scopo il benessere del paziente, in cui ognuno si colloca laddove “serve” e solo allora capirete che se quella vita si salva è anche merito vostro.
Un’idea di medicina da rivedere
Purtroppo capita anche di non riuscirci. In tre settimane in Uganda ho assistito a quattro nascite e tre morti e posso assicurarvi che non ci si abitua mai né all’emozione del primo pianto di un neonato e dello sguardo stanco ma fiero della sua mamma, né tantomeno allo strazio della perdita di una vita anche giovane o giovanissima, troppo spesso causata da problemi puramente economici. E così, oltre alla gioia posso dirvi che ho provato anche tanta rabbia perché basterebbe uno screening e una migliore informazione del paziente per prevenire alcune patologie, così come un banale farmaco o un intervento chirurgico di routine per risolvere un quadro clinico. Eppure quando il problema finanziario grava su una famiglia e peggio ancora anche sull’intero Paese, non c’è nulla da fare.
Indagini per noi routinarie sono in realtà un privilegio a cui siamo ormai abituati. Gli studenti che vogliano venire qui, lascino a casa tutto ciò che ci insegnano in anni di medicina sulle diagnosi di laboratorio, sulle metodiche di imaging e sulla chirurgia mini-invasiva. Non c’è spazio per tutto questo: ci sarete voi e le vostre mani, le vostre orecchie e il vostro intuito che sono gli unici mezzi diagnostici gratuiti e immediati, è necessario fare un passo indietro e ritornare alla figura storica del medico che fa della semeiotica la sua intera pratica clinica.
Così ho dovuto rivedere anche la mia idea di Medicina, rendendomi conto per la prima volta che esistono dei limiti oltre i quali non siamo in grado di spingerci e che quando la tecnologia non ci è più di supporto a volte è inutile accanirsi e darsi la colpa. Il senso di impotenza è spesso frustrante e lascia spazio all’altro aspetto fondamentale su cui si fonda il progetto Charity Work Program, che è appunto la carità, cioè l’amore.
Ho visto parenti di pazienti appena deceduti ringraziare i medici, ho inserito un’agocannula nella mano sinistra tumefatta e dolorante di un ragazzo che mi ha ringraziato per avergli salvaguardato la mano destra che gli serviva per lavorare, ho visto giovani donne benedire ognuno di noi dopo aver pianto lacrime di dolore per una sutura senza anestesia. I pazienti si rendono conto del nostro impegno e sanno che senza il lavoro dei medici non avrebbero avuto scampo.
E mi hanno dato una grande lezione, mi hanno insegnato quanto la fede sia fondamentale quando non c’è nient’altro da fare. Sono una ragazza cattolica, ma come tanti giovani della mia età ho lasciato da parte la religione tante volte per via di quella disillusione e rabbia, forse ancora un po’ adolescenziale, contro la società, il mondo, Dio, tanto da pensare di non voler più credere. Non so se abbiate mai vissuto qualcosa di simile, ma posso assicurarvi che davanti a un coetaneo che nel pieno del suo dolore trova la serenità con una preghiera si prova tenerezza e invidia per un sentimento così forte che non abbiamo mai avuto.
Le cose che ho imparato
In termini scolastici ho avuto l’opportunità di vedere casi rarissimi, ho imparato un diverso tipo di approccio al paziente, alla diagnosi e alle terapie, ho fatto forse un po’ meno di quanto mi aspettavo, ma tre settimane passano rapidissime, perciò: imparate con gli occhi.
In termini socio-culturali ho imparato che 10 minuti africani equivalgono a circa un’ora, che gli ugandesi hanno una guida spericolata su strade dissestate, che amano passeggiare con la musica a tutto volume e viaggiare con le galline in taxi. Ho riscoperto il mercato, la vita sociale in strada, i giochi con cui si divertivano i nostri genitori nell’era pre-computer, ho capito quanto noi europei non siamo affatto abituati al buio.
In termini umanitari ho trovato empatia con la commozione di una vita salvata e il dolore di una persa, ho imparato da gente di strada molti valori che credo abbiamo perso nel nostro Paese e ho ricevuto sorrisi “gratuiti” da gente povera che non aveva nient’altro da donarmi. È stata un’esperienza meravigliosa, ma non sarebbe mai stata così “speciale” senza tutti coloro che l’hanno resa unica accompagnandomi durante questo breve ma intenso viaggio nella terra rossa: Vale, Cla e Fede; miei compagni in tutto; Grace, Damoi, Teo, Fred e Florence, miei insegnanti; Okema, mio confidente, accompagnatore, guida turistica, supporto morale e grande amico. Un ringraziamento speciale allo staff del Charity Work Program per avermi permesso una simile opportunità e a Padre John senza cui tutto questo non sarebbe stato possibile. Spero di avere l’onore di conoscerlo al più presto di persona.
* 24 anni, di Roma, sesto anno della laurea in Medicina, facoltà di Medicina e Chirurgia, sede di Roma