La violenza sulle donne fa male. Da sempre lo sappiamo per ragioni sociali e morali, e ora, anche per ragioni di bilancio pubblico. L'analisi quantitativa di questi costi è al centro della ricerca “Quanto costa il silenzio?”, uno studio promosso dall’Ong Intervita e curato da un comitato scientifico multidisciplinare coordinato da Anna Maria Fellegara, preside della facoltà di Economia e Giurisprudenza della sede di Piacenza dell’Università Cattolica. Adottare un approccio economico applicato a un tema così scottante e difficilmente tracciabile costituisce una vera sfida, sia nel metodo, sia nella conseguente dimostrazione di una tesi.
I risultati emersi dalle stime sono impressionanti: 17 miliardi annui complessivi, di cui 1,7 di costi diretti in erogazione di servizi, in larga parte pubblici. Quali sono i settori sollecitati da questo fenomeno drammatico? Vediamoli in ordine decrescente. Innanzitutto i costi del settore sanitario (460 milioni), poi quelli giudiziari inclusivi dei costi di detenzione (421 milioni), spese legali (circa 290 milioni), costi per l'ordine pubblico (235 milioni) e consulenze psicologiche (158 milioni), solo per citare i più onerosi.
Ma l'analisi non si concentra solo sul fronte dei servizi: viene anche misurata la perdita che le violenze comportano sulla produttività lavorativa, un ammanco nell'ordine dei 604 milioni annui. Tuttavia, più di 14 miliardi sui 17 globali stimati da questo lavoro, provengono da un calcolo di natura diversa: la quantificazione dei danni fisici e morali subiti, simulando «quanto sarebbe il risarcimento dovuto alle vittime se ogni episodio di violenza venisse da queste denunciato e l’autore del delitto fosse effettivamente condannato». Per quanto sia frutto di una quantificazione ipotetica, non si poteva escludere questa importante voce. Serve a dare un valore economico alle lesioni morali e fisiche, che sono l'aspetto più importante e preoccupante di questa piaga sociale.
Ci sono poi altri 6 milioni, spesi in “prevenzione e contrasto”, sui quali il comitato si pone una domanda fondamentale: «Rappresentano un costo per la società o, piuttosto, un investimento in capitale umano, che produce un ritorno sociale e di benessere collettivo?». La questione diventa cruciale per il legislatore, poiché molto spesso voci di spesa di largo respiro vengono catalogate come “spese correnti” e quindi non come “investimenti produttivi”.
Il fine dichiaratamente politico, nel senso pieno del termine, di questa ricerca va a sostegno di una tesi più semplice da affermare che da mettere in pratica: la prevenzione della violenza sulle donne è un investimento a monte che permette riduzioni di costi a valle. Per argomentare economicamente la convenienza di questa politica, purtroppo, non sono disponibili dati rilevati in Italia e sarebbe necessario monitorare la situazione per molto tempo per ottenerne i riscontri. Restano comunque molte ragioni per cui vale la pena percorrere questa strada. Non solo perché “è meglio” ed “è giusto” spendere per prevenire la violenza ed educare al reciproco rispetto di genere, ma anche perché potrebbe essere un investimento che si ripaga negli anni.