Cuocere il cibo con un fornello più ecologico, prodotto localmente e a prezzo contenuto. In uno dei Paesi più poveri del mondo. L’idea di una Ong francese che opera in Mali ha dovuto fare i conti con una scarsa accoglienza tra la popolazione.
Degli ostacoli all’adozione di questa soluzione favorevole alla salute e facilmente ripagabile economicamente si occupa Jacopo Bonan (intervistato nel video qui sotto ai microfoni di Youcatt), assegnista di ricerca del dipartimento di Matematica e fisica dell'Università Cattolica della sede di Brescia, che tra i suoi interessi di ricerca ha studiare interventi, politiche, comportamenti individuali che favoriscono lo sviluppo, dall’educazione all’accesso al cibo. Un tema di grande attualità nell’anno dell’Expo “Nutrire il Pianeta, Energia per la vita”.
Il progetto di Jacopo, co-finanziato dalla fondazione Feltrinelli, monitora la diffusione del fornello che consente sostanziali risparmi in termini di consumo di carbone e di emissioni di anidride carbonica. «I metodi di cottura più inquinanti restano ancora quelli maggiormente diffusi e io voglio scoprirne le ragioni – spiega il ricercatore trentenne -. Il costo ha una sua rilevanza, perché pesa del 30%-40% in più rispetto al modello tradizionale. Ma potrebbe esserci anche dell’altro: l'influenza della rete sociale, che induce a uniformare il comportamento della popolazione verso l'acquisto di un oggetto piuttosto che dell'altro».
Qual è il taglio della tua ricerca? «La mia tesi di dottorato in Economia politica verteva su tematiche dell'economia dello sviluppo, con particolare riferimento all'Africa subsahariana. Questa ricerca in Mali mi mette di fronte a un'esperienza nuova. La tematica centrale è l'accesso all'energia e, nello specifico, l'accesso a più moderni metodi di cottura dei cibi. Ogni anno 5 milioni di persone muoiono per via dell'esposizione ai fumi domestici e 2,6 miliardi di persone utilizzano ancora tecniche di cottura tradizionali poco sicure. L'Africa subsahariana è un territorio in cui questi problemi sono particolarmente accentuati».
La popolazione è consapevole dei vantaggi di questo fornello alternativo? «Molte donne non sanno che questo fornello esiste, molte altre non ne conoscono i vantaggi. Noi andiamo a confrontare gli impatti causali di alcune conoscenze confrontando i comportamenti di persone che ricevono determinate informazioni con altre che non le ricevono. In questo modo riusciamo a comprendere le ragioni di eventuali differenze nel comportamento d'acquisto».
Quali altri fattori, a parte quello informativo, possono influenzare l'acquisto del fornello? «Indaghiamo le reti sociali per controllare le scelte influenzate dal gruppo di appartenenza, che noi consideriamo sulla scala di quartiere. Il principio del condizionamento della rete sociale, che esiste un po' in tutte le società, porta a conformare i propri comportamenti a quelli del gruppo. Se, per esempio, molti dei miei amici hanno un tablet, sarò più motivato ad acquistarlo. Vorremmo arrivare a capire quanto queste reti possano essere “sfruttate” per diffondere comportamenti socialmente positivi, e quanto siano o meno più efficaci di operazioni informative tradizionali».
Insomma, convincere i gruppi d'influenza potrebbe essere più efficace di tonnellate di cartelloni pubblicitari. «Sì, è proprio così».
È facile immaginare che in cima alla lista dei problemi della popolazione non ci sia il fornello. Come ottenete l'interesse del vostro campione di ricerca? «Certo, la gente ha altre priorità e infatti, nelle nostre dimostrazioni, non ci soffermiamo troppo sull'aspetto della maggiore salubrità, poiché molto più dei problemi respiratori dovuti al fumo domestico vengono temute la malaria e i problemi intestinali. Per questo cerchiamo di insistere sul risparmio di carbone: il fornello si ripaga in tre mesi. Le barriere economiche, che in questo caso sono rappresentate dal costo superiore del fornello ecologico, sono già state studiate e quindi non sono l'oggetto primario della nostra ricerca».
L'influenza delle reti sociali potrebbe avere un ruolo anche in comportamenti quotidiani come la raccolta differenziata? Il principio di cui si parla nel tuo studio può essere traslato anche nel contesto italiano? «Sì è cosi. La maggior parte della ricerca economica, anche nei Paesi in via di sviluppo, mira a dire qualcosa sul comportamento umano che abbia carattere più generale rispetto alla circoscritta area in cui viene effettuata la ricerca.
Cosa ti lascia quest'esperienza in Mali? «È sempre una grande sfida lavorare nei Paesi in via di sviluppo: succedono sempre cose inaspettate. Bisogna sempre conciliare il rigore della ricerca con la gestione concreta di un progetto che sicuramente produrrà imprevisti. Un altro aspetto interessante è che lavoriamo con giovani ragazzi maliani, di venti, venticinque anni, a cui offriamo un lavoro, anche se solo per tre mesi».