Uno studio che può aiutare a comprendere il difficile problema dello smaltimento di Pcb, una sigla tristemente famosa anche in Italia per i danni all’ambiente che persistono in molte città anche a distanza di molti anni. La ricerca sui policlorobifenili è stata condotta presso il Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston da Edoardo Puglisi, collaboratore di ricerca della facoltà di Agraria, dopo un soggiorno di tre mesi nella università americana reso possibile da un progetto europeo coordinato dal professor Ettore Capri, docente di Chimica Agraria a Piacenza e direttore del centro di ricerca Opera. Al lavoro hanno partecipato, oltre al professor Capri, Paolo Boccazzi, un laureato della facoltà di Agraria che svolge da 20 anni attività di ricerca negli Stati Uniti e da otto lavora al Mit, Anthony Sinskey e Philip Lessard, del dipartimento di Biologia dell’istituto americano, Matt Cahill del Dipartimento di Genetica di Cambridge (Uk), e John Archer del Kaust in Arabia Saudita.
Lo studio è stato appena pubblicato sulla rivista scientifica Microbial Ecology (Transcriptional Response of Rhodococcus aetherivorans I24 to Polychlorinated Biphenyl-Contaminated Sediments) e riguarda una tematica ambientale di carattere interdisciplinare tra la chimica e la microbiologia: la risposta agli inquinanti chimici da parte di microorganismi di interesse ambientale. Nello specifico i ricercatori hanno studiato sedimenti portuali contaminati da Pcb, i policlorobifenili, inquinanti persistenti derivanti dalla produzione di pile ed altro materiale elettrico, la cui produzione è cessata nel 1977 ma a causa della loro recalcitranza alla degradazione sono ancora molto presenti nell'ambiente. Su questi sedimenti inquinati è stato fatto crescere un microrganismo (Rhodococcus aetherivorans I24) precedentemente isolato da un sito inquinato e provvisto dei geni per degradare, cioè per “mangiarsi” i Pcb e altri inquinanti.
Tramite una tecnica biotecnologica abbastanza recente (i Dna-microarrays) è stata valutata l'espressione di tutti i geni (più di 5.000) del microrganismo in presenza dei Pcb, cioè come l’organismo reagisce al contatto con queste sostanze. I risultati hanno mostrato che sebbene il Rhodococcus possieda i geni per la degradazione dei policlorobifenili, questi non si sono attivati, mentre si sono attivati una serie di geni di risposta allo stress determinato dagli inquinanti. Il risultato della ricerca? Sebbene il Rhodoccous potrebbe degradare i Pcb, non lo fa perché la loro tossicità è troppo alta.
Lo studio, che testimoniare la capacità della sede piacentina di fare rete con grandi attori della ricerca mondiale, ha diverse conseguenze di interesse scientifico e tecnico per la gestione e la bonifica dei siti inquinati. Innanzitutto conferma l'importanza di studi interdisciplinari (soprattutto chimica e microbiologia) per affrontare le problematiche dell'inquinamento ambientale. Mostra inoltre il ruolo delle biotecnologie nel comprendere i meccanismi tramite i quali i batteri, i principali "spazzini" ambientali in grado di degradare gli inquinanti, rispondono all'inquinamento. Nello specifico, è stato possibile comprendere perché composti come i Pcb possano persistere per decenni nell'ambiente anche in presenza di batteri che "sulla carta" sarebbero in grado di degradarli o che, per dirla in termini tecnici, possiedono nel loro genoma geni specifici per la degradazione dei Pcb. Lo studio fornisce quindi strumenti avanzati per affrontare in modo realistico problematiche di inquinamento ambientale, e potrà suggerire strategie alternative per la decontaminazione chimica o biologica di siti inquinati.